L’emergenza coronavirus, insieme alle misure di distanziamento sociale, potrà comportare uno strascico negativo, per alcune persone, a livello di benessere psicologico e salute mentale. Per questo medici e specialisti raccontano in maniera efficace, in due articoli su Jama (uno su Jama Internal Medicine e l’altro su Jama Pediatrics), come gestire e ridurre lo stress. Lo fanno indicando anche azioni concrete per migliorare la propria capacità di far fronte alle difficoltà e riflessioni positive che possono indurci a scoprire nuovi punti di vista.
Ad oggi non disponiamo di molte informazioni sull’impatto psicologico di altre epidemie e pandemie in cui è stato necessario il distanziamento sociale. L’epidemia di Sars è stata associata a un aumento di stress e disturbo post traumatico da stress e altri problemi psicologici, come spiegano gli autori dell’articolo su Jama Internal Medicine, fra cui Sandro Galea, medico ed epidemiologo alla Boston University School of Public Health.
Il primo punto – spiegano gli autori – riguarda la creazione di una routine, anche e soprattutto per bambini e ragazzi a casa da scuola, insieme all’uso delle tecnologie per mantenerci connessi con gli altri. Questo non vale solo per la didattica: anche luoghi di culto, palestre, uffici, possono consentire a fedeli, utenti e lavoratori di rimanere collegati mentre svolgono le loro attività. Per le realtà in cui questo non è possibile, l’ideale sarebbe trovare strategie e approcci da remoto che consentano di valutare lo stato di salute anche psicologica delle persone.
In secondo luogo, in caso di situazioni particolari, come episodi di violenza domestica e abuso su minori è necessario, secondo gli autori, valutare il rapporto rischio-beneficio del distanziamento sociale, mentre i servizi sociali dovrebbero trovare nuovi approcci nuovi e creativi per rispondere alle segnalazioni. Il terzo punto: anche i sistemi e i servizi che si occupano della salute mentale dovrebbero affacciarsi all’emergenza con un approccio creativo per aiutare chi è in difficoltà. Oltre alla telemedicina e a gruppi a distanza, un’ipotesi potrebbe riguardare la formazione di “gruppi non tradizionali” (anche un pubblico più generale e non di soli specialisti), scrivono gli autori, per fornire un “primo soccorso psicologico”.
Nell’articolo su Jama Pediatrics, Abby R. Rosenberg del dipartimento di pediatria della University of Washington School of Medicine a Seattle, che si occupa di cure palliative, illustra che la resilienza è definita come “il processo di adattarsi bene di fronte ad avversità, traumi, eventi tragici, minacce o altre fonti significative di stress”. L’esperta, però, racconta di essersi interrogata per anni su cosa volesse dire non solo adattarsi ma adattarsi bene. Si è posta questa domanda dopo aver parlato con una coppia di genitori che avevano perso il loro figlio e che le avevano detto di essere resilienti perché continuavano ad alzarsi dal letto giorno dopo giorno e a svolgere il “duro lavoro di vivere senza il loro figlio”. La reazione dell’autrice è stata di stimare queste persone per la loro reazione e di formarsi un concetto di resilienza come di qualcosa che ha a che fare con l’adattamento e con la resistenza fisica più che anche al benessere psicologico.
Ma al passare del tempo e dell’esperienza ha riconsiderato questo concetto e si chiesta se la resilienza sia solo questo – che non è poco, anzi è moltissimo, come da lei stessa riconosciuto, nella situazione descritta in precedenza – o se al passare del tempo possa esserci qualcosa in più. Quello che può cambiare e scattare nella mente, spiega, è che quando si supera un’avversità ed è trascorso un tempo sufficiente si può guardare indietro in prospettiva e ragionare su quanto si è stati forti in quella circostanza, su come si è cambiati anche a livello di identità personale e di consapevolezza. Gli stessi genitori, dopo diverso tempo, hanno condiviso con lei che ora si sforzano di vivere la loro vita al massimo perché il loro figlio non può più farlo.
E bisogna fare lo stesso anche nel caso di Covid-19, anche perché la resilienza non è qualcosa di innato (o comunque solo in parte) ma è frutto di un’azione deliberata, scrive. Ora stiamo attraversando il guado, ma dopo potremmo guardarci indietro con un nuovo spirito. E a livello individuale possiamo già lavorarci. Come? Chiedendoci come ci siamo comportati in altre situazioni difficili, facendo affidamento e ricordandoci delle nostre qualità, come determinazione, forza, ottimismo, procedendo a piccoli passi ed esprimendo gratitudine.
Via: Wired.it
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