Scienza al bivio in Sud America

In America latina la ricerca scientifica è a un bivio epocale. Università e laboratori devono inserire una marcia in più e rivedere il proprio ruolo, se non vogliono essere esclusi dalle nuove dinamiche economiche. Secondo Fernando Reinach, dell’Istituto di Chimica dell’Università di San Paulo del Brasile, la comunità scientifica latino-americana non può più nascondersi dentro ai templi della ricerca pura e dell’insegnamento, protetta da finanziamenti sicuri e carriere intoccabili. E’ finito il tempo delle sovvenzioni statali a getto continuo: la recente apertura dei mercati verso i Paesi più avanzati e le sempre più frequenti privatizzazioni costringono la scienza sudamericana a fare i conti con un mercato sempre più competitivo. Oggi la ricerca deve sostenere la produzione di nuove tecnologie. La comunità scientifica è così chiamata a rispondere a questa nuova esigenza: ricerca di base sì, ma soprattutto scienza applicata.

Secondo l’analisi dello studioso brasiliano, pubblicata su Nature, i governi di Cile, Brasile, Argentina e Messico sono stati i primi ad abbandonare il protezionismo economico a tutti i costi e stanno adottando, non senza fatica, il modello della competizione. Si tratta di una rivoluzione culturale che sta avendo forti ripercussioni anche nelle università e negli enti di ricerca: per gli accademici, in particolare, il mito del posto fisso sembra ormai al tramonto, e un ruolo sganciato dallo sviluppo economico è ormai senza futuro. Secondo Reinach, oggi in America del Sud i centri di ricerca starebbero pagando l’eccessivo distacco dal mondo del lavoro che aveva caratterizzato la precedente politica: “L’arrivo di capitali esteri – spiega il professore brasiliano – ha messo in subbuglio molti settori dell’economia, spingendoli a diventare competitivi e a colmare l’enorme ritardo tecnologico rispetto ai paesi più ricchi. Grazie anche all’appoggio popolare, i governi stanno guardando con molto interesse ai modelli stranieri”.

E i risultati non hanno tardato ad arrivare. In Cile non esiste più un monopolio di telefonia fissa, ma diverse compagnie in competizione che rilanciano tariffe al ribasso; in Argentina i cellulari coprono aree desolate e inaccessibili, sino a ieri escluse dalla comunicazione a distanza; a Brasilia ormai i collegamenti televisivi si realizzano solo con i più moderni sistemi di connessione Internet. Inevitabile il commento di Reinach: “Le università statali dovranno presto abituarsi all’idea di progettare anche per il mondo esterno e non solo per quello accademico. Tra pochi anni i ricercatori universitari non potranno più fare solo scienza di base e insegnamento: sopravviveranno solo se saranno in grado di essere sensibili alle esigenze del mercato e interagire con le industrie”.

Per il mondo scientifico lo strappo con il passato è davvero grande. Per oltre vent’anni i paesi dell’America Latina hanno sostenuto un modello di ricerca a dir poco stagnante. Il mercato era infatti “chiuso” dai regimi militari, e lo sviluppo tecnologico era bloccato dall’importazione di macchinari obsoleti provenienti da paesi industrializzati, peraltro a prezzi salatissimi. “Agli ambienti scientifici si richiedeva di produrre esclusivamente pubblicazioni, spesso piene di retorica, e di convivere con le politiche nazionaliste”, commenta ancora Reinach. “In cambio, docenti e ricercatori avevano non pochi privilegi, tra cui la garanzia del posto fisso. Non a caso, gli studenti non “allineati” erano costretti a rifugiarsi all’estero per seguire corsi di specializzazione e dottorati post-universitari”.

La decisione di ridurre le tasse sulle importazioni delle tecnologie dall’estero ha improvvisamente svegliato questi paesi dal loro torpore. “Solo pochi anni fa nessuno avrebbe mai pensato – conclude il professore di San Paulo – che l’Università statale, per non estinguersi o essere trasformata in un istituto di ricerca privato, si sarebbe dovuta preoccupare di produrre know-how a supporto di tecnologie avanzate e competitive”.

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