Silenzio, la cellula si difende

Cosa succede quando un elemento estraneo tenta di aggredire il Dna di una cellula? L’organismo si difende. La risposta è elementare, ma fino a oggi non era poi così scontato capire come avviene. Ci sono voluti dieci anni di studi, nonché qualche errore, per comprendere come un organismo neutralizza l’attacco di quei virus capaci di penetrare nel suo Dna. Quando un gene si trova dinanzi un elemento che potrebbe modificare il suo codice, va “in letargo”, cioè si disattiva, smettendo di produrre le proteine. La scoperta arriva da un’équipe del Dipartimento di biotecnologie cellulari ed ematologia (http://www.bce.med.uniroma1.it/) dell’Università “La Sapienza” di Roma, guidata da Giuseppe Macino e Carlo Cogoni. Le possibili applicazioni? Per ora sono solo ipotesi, per quanto suggestive, come quella di potenziare le capacità difensive dell’organismo contro l’aggressione dei virus. Ma ripercorriamo la storia di questa importante scoperta.

Nel 1992 i ricercatori italiani si sono imbattuti in un fenomeno inspiegabile. “Stavamo cercando di potenziare la sintesi di carotenoidi in un fungo, la Neurospora crassa, introducendo elementi transgenici nel suo Dna”, spiega Giuseppe Macino, professore di biologia cellulare all’Università di Roma. “Tuttavia con nostra grande sorpresa il processo di sintesi non solo non aumentava, ma si annullava completamente”. Questo clamoroso insuccesso spinse i ricercatori a interrogarsi sul perché.

La Neurospora crassa è un fungo dal caratteristico colore arancione, che le deriva proprio dalla sintesi di una proteina chiamata, appunto, carotenoide. Le qualità di questa proteina sono note: è la proteina più importante per sistema visivo nonché un eccellente antiossidante. I ricercatori pertanto speravano di fare del fungo una sorta di “macchina” per produrre carotenoidi in grosse quantità, a uso farmaceutico. La strada più ovvia era quella di inserire nel Dna della Neurospora delle sequenze nucleotidiche aggiuntive, chiamate transgeniche, che codificassero quella sostanza. E il risultato che ci si aspettava era un incremento nella produzione della proteina. Oggi sappiamo che ciò non è avvenuto perché il gene, riconosciuta la presenza di elementi estranei nel Dna, si era autosilenziato, ossia aveva disattivato complessivamente la sintesi dei carotenoidi. In altre parole, visto che i conti non tornavano, aveva fermato l’intero processo.

Per la verità, già dal 1990 varie équipe di ricercatori avevano evidenziato lo stesso problema prima nella Petunia, poi nelle Drosophila (il moscerino della frutta) e, recentemente, nei topi. C’era da supporre che ciò che valeva per i topi fosse valido anche per gli esseri umani e quindi la posta in gioco diventava sempre più alta. “Comprendere come funziona il meccanismo del silenziamento dei geni”, ricorda Cogoni, “significa capire anche come manipolarlo, potenziandolo o disattivandolo”.

L’équipe dell’Università di Roma è riuscita a fare proprio questo, isolando nel 1999 i primi due geni, qde-3 e qde-1, responsabili del meccanismo di silenziamento. I primi risultati sono apparsi sulle riviste Science e Nature. Poche settimane fa è stato individuato anche l’ultimo tassello di questo complesso mosaico, il gene qde-2, e i risultati conclusivi saranno presentati a breve ancora su Nature.

Il meccanismo di azione dei tre geni “sonniferi” è piuttosto complesso. Il Dna, contenuto nel nucleo di ogni cellula, registra tutte le istruzioni per la sintesi, per esempio, di una proteina. Queste istruzioni devono però essere trascritte e trasportate fuori dal nucleo, all’interno del citoplasma (il corpo della cellula) dove avviene effettivamente la sintesi. E’ questo il compito dell’Rna messaggero. Il silenziamento può avvenire sia nel nucleo, durante la trascrizione dell’Rna messaggero, sia a livello del citoplasma, quando è in atto la sintesi della proteina.

Il gene qde-3 è il primo ad attivarsi: l’omonima proteina QDE3 separa i due filamenti che costituiscono il Dna e verifica che non vi siano eventuali errori di sequenza. Se la proteina individua elementi estranei lancia un segnale di allarme, l’aRna, che viene immesso nel citoplasma insieme all’Rna messaggero portatore degli elementi transgenici. L’allarme viene raccolto dalla proteina QDE1 che forma una seconda molecola di Rna, omologa a quella transgenica. A questo punto, le due molecole, quella creata per effetto del segnale di allarme e quella modificata dai transgeni, si accoppiano. Arriviamo così all’ultimo tassello è il qde-2, il gene individuato appunto poche settimane fa: la proteina da esso prodotta (QDE2), anziché dar seguito alla sintesi proteica, distrugge le molecole appaiate di Rna.

Le implicazioni più attese, dopo questa scoperta, sono quelle in campo medico: “potenziare il silenziamento”, spiega Cogoni, “significa aumentare le capacità difensive dell’organismo contro l’aggressione dei virus, la maggior parte dei quali ormai ha trovato una maniera per aggirarlo”. Ma anche, aggiunge, “fornire nuove possibilità di intervento nella cura di malattie come il cancro”. Il meccanismo opposto, potrebbe essere sfruttato invece nelle biotecnologie alimentari poiché, prosegue Cogoni, “la disattivazione programmata del silenziamento genico permetterebbe di potenziare la sintesi di alcune sostanze presenti nelle piante ed estremamente utili all’organismo umano”. Senza dimenticare poi il beneficio potrebbe ottenere lo studio dei vaccini.

Quello delle applicazioni è comunque un capitolo ancora tutto da scrivere. Perché, anche se il meccanismo del silenziamento è stato spiegato, ci sono alcuni ostacoli da superare. “Dobbiamo ancora capire come rendere stabili gli effetti dell’intervento genico esterno che tendono a mutare nel tempo”, spiega Cogoni. Inoltre, nei mammiferi il silenziamento subentra comunque quando le copie di Dna transgenico inserite sono troppe. E’ come se ci fosse una soglia di tolleranza della cellula agli elementi transgenici, al di sopra della quale il gene tende nuovamente a silenziarsi. “Probabilmente negli organismi più evoluti come i mammiferi”, conclude Cogoni, “ci sono anche altri sistemi di controllo che sono ancora sconosciuti. Ma quando saremo in grado di spiegare anche questi, è ipotizzabile l’uso di trattamenti farmacologici appositamente studiati”.

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