Sindrome di Rett: la reversibilità è possibile

La sindrome di Rett (SR) è la seconda causa di ritardo mentale nelle bambine, dopo quella di Down. La grave malattia neurologica infantile, che si manifesta quasi esclusivamente nelle femmine tra i 6 e i 36 mesi con un’incidenza di 1 caso su 10mila, comporta una regressione di quasi tutte le capacità acquisite. In un lasso di tempo piuttosto breve le bambine perdono l’abilità motoria, l’uso del linguaggio e delle mani e l’interesse per il mondo esterno,  per diventare presto incapaci di controllare tutti i loro movimenti volontari. Il cervello diventa cioè incapace di comandare al proprio corpo. Ciò comporta anche difficoltà respiratorie durante il giorno, che poi cessano di notte nel sonno, quando l’attività cerebrale è meno intensa.

La sintomatologia della sindrome di Rett, classificata come patologia solo nel 1983, era finora ritenuta irreversibile. Uno studio pubblicato su Science Express dell’8 febbraio, condotto su topi  privati del gene MEPC2, il cui malfunzionamento è all’origine della malattia, lascia sperare che le cose non stiano così. I ricercatori dell’Università di Edimburgo, guidati da Adrian Bird, hanno infatti dimostrato che la reintroduzione di una copia del MEPC2 riesce a ripristinare le condizioni di partenza, cancellando del tutto i disturbi della malattia.

“Il risultato è molto incoraggiante. I topi di Brid hanno infatti riacquistato interamente la mobilità, la capacità di alimentarsi, la normale attività respiratoria, perdendo i tremori parkinsoniani tipici della patologia”, commenta Nicoletta Lansberger professoressa di biologia molecolare all’Università dell’Insubria. “Sapevamo già che la sindrome di Rett non comporta alcuna degenerazione dei neuroni, e quindi, in linea teorica, era già ipotizzabile la reversibilità che adesso è stata dimostrata nei topi. La grande novità emersa con questo studio è che la regressione dei sintomi può avvenire anche a distanza di tempo dall’insorgere della malattia. Una volta riacceso il gene, infatti, anche i topi più anziani e più gravi recuperano totalmente le loro funzioni, facendo ben sperare in futuro per la guarigione anche di donne adulte”, prosegue Lansberger.

La scomparsa dei difetti di comportamento nei topi è accompagnata anche dal recupero di un’importante funzione elettrofisiologica del cervello denominata LTP (long term potentiation), che indica la capacità dei neuroni di rispondere agli stimoli. “È ancora presto per poter trasferire i risultati negli esseri umani. Attualmente la terapia genica non è in grado infatti di quantificare il giusto dosaggio del gene. Gli sforzi della ricerca si dovranno concentrare ora nell’individuare dei farmaci capaci di simulare le funzioni del gene MECP2”, conclude la Lansberger. Questi farmaci  potrebbero rivelarsi utili anche per la terapia di altre malattie che presentano una mutazione del MECP2,  come l’autismo e la schizofrenia. (g.d.o)

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