Stent a doppia azione

Riaprire le arterie ristrette dopo che, a causa proprio di un’occlusione, si è avuto un infarto. È questo lo scopo dell’intervento di angioplastica, un’operazione che nel 30-40 per cento dei casi, a distanza di qualche anno, viene vanificata. Per divaricare i vasi infatti vengono utilizzati gli stent, sottili maglie metalliche, che possono provocare la formazione di una cicatrice nell’endotelio arterioso. È come se la membrana che riveste le arterie si difendesse dal corpo estraneo introdotto proliferando, e riproponendo così il problema iniziale: restringimento o, addirittura, occlusione del vaso sanguigno. Un fenomeno detto restenosi, maggiore – si arriva anche al 50 per cento di recidive – nei soggetti diabetici. Una soluzione a questo problema arriva ora da una molecola, la rapamicina – farmaco finora sperimentato per impedire il rigetto nei trapianti d’organo: “Ricoprendo gli stent con dei polimeri plastici spugnosi imbevuti di rapamicina”, spiega Paolo Angelini del Texas Heart Institute di Houston (Usa), “abbiamo ottenuto, in tre anni di sperimentazione clinica, una completa guarigione nell’80 per cento dei casi”. I risultati della ricerca e la metodologia impiegata sono stati illustrati durante un workshop internazionale di cardiochirurgia organizzato dal Centro di cultura scientifica “Ettore Majorana” di Erice.Nel tentativo di rendere gli interventi di angioplastica definitivi, i ricercatori, negli ultimi anni, hanno tentato di perfezionare la tecnica utilizzando prima stent radioattivi e infiltrazioni locali di radiazioni e, successivamente, stent ricoperti di fosfatilcolina (farmaco antitrombolitico). Mentre la prima soluzione non ha trovato riscontri clinici più promettente, anche se non completamente soddisfacente, è parsa, invece, la seconda via, quella dei farmaci. “Queste due sperimentazioni”, dice Angelini, “hanno aperto la strada all’impiego della generazione di stent imbevuti di farmaci: abbiamo però appurato, che la sostanza che più si presta è la rapamicina”. Il farmaco viene rilasciato, in maniera graduale, a piccole dosi a livello locale, e agisce nel primo mese successivo al posizionamento dello stent. La reazione cicatriziale, infatti, si attiva proprio nei giorni successivi all’impianto. “La ricerca in materia è, tuttavia, in piena attività: con la rapamicina sono allo studio altre 12 molecole candidate a realizzare gli stent medicati”, spiega il cardiologo. Una cosa però lo preoccupa: l’alto costo del dispositivo. “Il prezzo imposto dalla Johnson & Johnson, la casa farmaceutica che produce gli stent medicati, è tre volte superiore a quello dei dispositivi tradizionali”, commenta Angelini. “Oggi negli Stati Uniti, il 70 per cento degli interventi di rivascolarizzazione coronarica si effettuano con l’introduzione di stent; soltanto nel 30 per cento dei casi si ricorre agli interventi chirurgici di by-pass. L’incidenza dal punto di vista economico, pertanto, è molto rilevante”. Gli studiosi ritengono che l’impiego di stent medicati, su larga scala, possa ulteriormente abbassare il ricorso alle tecniche chirurgiche tradizionali. “Bisogna tuttavia aggiungere”, dice il medico, “che anche i cardiochirurghi stanno raffinando le loro metodologie: l’introduzione dell’uso sperimentale di arterie nei by-pass (al posto delle vene), delle tecniche mininvasive e di quelle tendenti a eliminare la circolazione extracorporea durante le operazioni, stanno rendendo gli interventi di by-pass sempre meno impegnativi per il paziente”. Nel corso del workshop di Erice sono state presentate novità anche nel campo della prevenzione dell’infarto del miocardio causato dalle placche instabili. Gli stent e gli interventi di by-pass, infatti, sono indicati nel caso di severa ostruzione delle coronarie, diagnosticata mediante una coronariografia. Ci sono, invece, placche apparentemente innocue perché di piccole dimensioni che, pur non ostacolando la vascolarizzazione, per ragioni ancora sconosciute, possono rompersi all’improvviso e creare un coagulo ostruttivo. “Sono queste placche”, conclude Angelini, “a causare la maggior parte degli infarti in soggetti che non hanno mai avuto alcuna sintomatologia prima dell’evento scatenante”. Una recente sperimentazione clinica ha dimostrato che, dimezzando il livello di colesterolo nel sangue mediante l’assunzione di farmaci della famiglia delle statine, le placche instabili regrediscono in maniera significativa.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here