Laguna di Venezia, stress da vongola

La laguna di Venezia è in serio pericolo. A minare la salute del delicato ecosistema ora è anche la vongola filippina – Tapes philippinarum -, originaria dell’area asiatica e immessa sperimentalmente agli inizi degli anni Ottanta. Una varietà più facilmente coltivabile e dal maggior rendimento. E su cui si concentrano gli interessi dei pescatori abusivi: si calcola che una singola barca attrezzata meccanicamente per la pesca delle vongole in quattro ore riesca a pescare un quantitativo equivalente a oltre cinquemila euro. Oggi la varietà occupa circa un terzo dei 550 chilometri quadrati su cui si estende la laguna e le conseguenze della sua presenza sull’intero ecosistema sono al limite della tollerabilità. “Se anche sospendessimo oggi l’abusivismo sarebbero necessari almeno sei anni per ripristinare lo stato di salute di questi luoghi”, ha affermato Patrizia Torricelli, ordinario di Ecologia, nel presentare alla Scuola Internazionale di Biologia Marina del Centro “Ettore Majorana” di Erice lo studio condotto dal dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

A minare gravemente la salute dell’ecosistema lagunare sono i “turbosoffianti” o “draghe idrauliche” e altri sistemi di pesca che scavano profondi solchi sul sedimento: in pratica si fanno riaffiorare le parti meno ossigenate del sedimento provocando un cambiamento della sua morfologia. Lo stress provocato dalle 800 barche che si calcola utilizzino tali metodi non è più sostenibile e si rischia di infliggere un danno irreparabile. “L’abbondanza di vongole filippine nella laguna ha radicalmente cambiato il sistema di pesca che, da artigianale e sostenibile è diventato industriale e altamente impattante: i vecchi pescatori rispettavano il ciclo vitale delle specie, mentre oggi si guarda soltanto al profitto immediato”, ha sottolineato Torricelli.

Un’alternativa potrebbe essere rappresentata dal modello canadese, che assegna a ogni pescatore la gestione di un’area di pesca. Il vantaggio è duplice: si responsabilizzano gli operatori, che sono costretti a rispettare il ciclo biologico naturale, e, nel contempo, confinando l’attività, si preservano le aree definite a maggior rischio. Dallo studio dell’Università di Venezia emerge, fra l’altro, che la situazione nella laguna si è fatta più critica negli ultimi quattro anni. Il pescato non è più in crescita e la qualità è diminuita. È come se pigiando sull’acceleratore si esca fuori coppia massima: la potenza erogata diminuisce e il motore si imballa, rovinandosi. “Credo sia giunta ormai l’ora di imprimere una svolta”, afferma la Torricelli. “Chi ha la responsabilità della gestione lagunare venga ad ascoltare la comunità scientifica”. Ma l’immissione della nuova specie non è, purtroppo l’unico problema della laguna: “Pur mancando, a tal proposito, studi approfonditi”, dice Bruno Battaglia, professore emerito di Genetica all’Università di Padova, “ci sono indizi, quali l’inquinamento delle acque e la riduzione della biodiversità che devono farci riflettere”.

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