Nobel per la medicina e la fisiologia al fondatore della paleogenomica: Svante Pääbo

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(Foto: Warren Umoh on Unsplash)

Tanto di quello che sappiamo sulla nostra storia lo dobbiamo a lui. E quando parliamo di nostra storia ci riferiamo a quella della nostra specie. In realtà il neolaureato (in casa) premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia 2022, il biologo svedese Svante Pääbo, ha fatto luce sulla storia non solo della nostra specie, ma di gran parte della famiglia, scoprendone nuovi membri e le relazioni che li legavano. Un nobel che premia l’antropologia dunque, ma che ancora prima premia la genetica: perché senza la capacità di leggere il nostro dna  e quello dei nostri parenti , sempre migliore nel corso degli ultimi trent’anni, le relazioni e le eredità in famiglia sarebbero rimaste ancora piuttosto sfocate.

Di Svante Pääbo – classe 1955, già vincitore del Breakthrough Prize – sulle pagine di Wired abbiamo parlato tante volte. E non potrebbe essere stato altrimenti, perché il biologo svedese è infatti considerato il padre della paleogenomica. A lui e ai suoi gruppi di ricerca dobbiamo la scoperta e la caratterizzazione di diversi fossili, molto spesso attraverso la ricostruzione di ritratti di famiglia. È il caso per esempio della scoperta relativamente recente dell’erede diretta dell’uomo di Neanderthal e dell’Homo di Denisova, particolarmente curiosa considerando che anche i genitori erano stati per così dire una scoperta di Pääbo.


Neanderthal, un ritratto in Dna


Il problema del dna arcaico

L’uomo di Neanderthal in realtà era noto da tempo, circa un secolo prima che il biologo venisse al mondo. Come ricordano oggi gli esperti del comitato dei Nobel ripercorrendo gli studi del biologo svedese, era il 1856 infatti quando i resti del più famoso dei nostri cugini venivano rinvenuti nell’omonima vallata tedesca, e quei fossili, come molti altri, furono a lungo “letti” solo attraverso analisi classiche di paleoantropologia, basandosi cioè sulle caratteristiche morfologiche anatomiche e su quelle del contesto in cui vennero ritrovati. Sarebbe stato il lavoro di Pääbo e di altri pionieri del campo – come il biologo neozelandese Allan Wilson – a rivoluzionare il campo, fino a stravolgerlo, ovvero dimostrando che a partire dal dna arcaico è possibile ricostruire le tracce della nostra evoluzione. Purché quel dna sia disponibile e conservato a dovere.

Di per sé infatti la possibilità di analizzare il dna antico è complessa:le molecole nel corso dei millenni si frammentano, si modificano, si degradano – soprattutto in condizioni non ideali con temperature elevate – e si contaminano con quanto presente nell’ambiente, piante, animali e microrganismi. A questo si aggiunge il rischio di contaminazione dovuto al lavoro dei ricercatori, soprattutto in passato. Una parte dei risultati del lavoro di Pääbo si deve allo sviluppo di tecniche e strumenti di gestione del materiale biologico che potessero ridurre al minimo la contaminazione dei materiali e compromettere l’interpretazione dei risultati, oltre al beneficio di tecniche di biologia molecolare appena nate, come la PCR per l’analisi del dna (che consente sostanzialmente di amplificare delle sequenze genetiche). Prima di quello mitocondriale – ovvero del materiale genetico contenuto nei mitocondri, le centrali energetiche delle cellule, presente in maggior quantità perché ogni cellula ne contiene molti – poi di quello nucleare, analizzando i fossili di antenati scoperti in varie parti del mondo

I lavori su Neanderthal e Homo di Denisova

I primi studi sul dna mitocondriale dei Neanderthal mostrarono che si trattava di una popolazione distinta, probabilmente originata da un piccolo nucleo che si era poi espanso, e che poco aveva contribuito geneticamente alle popolazioni umane moderne. Ci sarebbero voluti gli avanzamenti nelle tecniche di preparazione e analisi del genoma negli anni a venire, e quindi il sequenziamento anche del materiale del dna nucleare, per dimostrare invece che i Neanderthal, che si erano separati da Homo Sapiens probabilmente 800 mila anni fa, avevano contribuito eccome alle popolazioni moderne: oggi si stima stima che tra l’1 e il 2% circa dei genomi moderni siano di derivazione neanderthaliana. Un’eredità che si fa risalire al periodo in cui le due popolazioni convissero in Eurasia. A lungo si è parlato di come fossimo tutti eredi dei Neanderthal ad esclusione delle popolazioni africane, ma studi recenti hanno rimescolato le carte in tavola, suggerendo che nessuna delle popolazioni moderne possa dirsi esclusa da questa eredità.

Svante Pääbo ha legato il suo nome anche a un altro illustre antenato: l’Homo di Denisova, un coevo di Homo Sapiens e dell’uomo di Neanderthal, vissuto tra gli 80 mila e i 40 mila anni fa. Le scoperte in questo caso si devono alle analisi compiute su appena un mignolo fossile di questo antenato rinvenuto in Siberia e mostrano che mentre in Eurasia si espandeva il Neanderthal, a est, si espandeva una popolazione distinta. Anche questa sarebbe rimasta in eredità alle popolazioni moderne, contribuendo a costituire fino al 6% del materiale genetico di alcune popolazioni del sud-est asiatico. Il biologo svedese nella sua vita ha avuto anche l’occasione non solo di dimostrare che quel mignolo apparteneva a una popolazione sconosciuta, ma avrebbe studiato anche i resti fossili della figlia di una Neanderthal e un Denisovadimostrando che i due ominidi condividisero luoghi e si incrociarono.

L’eredità genetica messa in luce dagli studi di Pääbo racconta qualcosa di più che le sole strade percorse dai nostri antenati durante l’evoluzione e dell’aspetto che potessero avere: gli uni, a ovest, chiari e con capelli rossicci, gli altri più scuri a est. Alcuni studi infatti suggeriscono che i geni che abbiamo ereditato dai Neanderthal aiutino a regolare la risposta immunitaria, allergie comprese, con possibili coinvolgimenti anche nelle risposte al coronavirus: alcune di queste eredità infatti si assocerebbero al rischio di malattia grave, secondo Pääbo. Altre invece, per quanto riguarda i Denisova, aiuterebbero alcune popolazioni tibetane moderne a vivere meglio ad alte altitudini.

Via: Wired.it

Credits immagine: Warren Umoh on Unsplash