Tempesta di fine millennio

Quando Sigmund Freud diceva che la psicoanalisi era essenzialmente un modo di educare le persone, alludeva con ogni probabilità a ciò che di più innovativo e pervasivo la nascente teoria portava con sé. Dell’inconscio si era già sentito parlare molto prima di Freud, alla fine del ‘700, con il Preludio del poeta William Wordsworth. Il debito della psicoanalisi nei confronti dell’arte e, più in particolare, della letteratura si basava proprio su questa anteriorità: la sensibilità degli artisti aveva già da tempo quantificato e descritto ciò che poi Freud pose alla base del suo metodo.

Lo stesso psicoanalista, in una lettera a Arthur Schnitzler, si diceva sorpreso della facilità con cui lo scrittore riusciva a scandagliare aspetti nascosti della personalità umana a cui lui poteva giungere solo dopo anni di duro lavoro. Ma – rimarcava Freud – c’era una grande differenza tra l’intuizione dell’artista e la professionalità dello psicoanalista. E questa differenza la faceva il metodo.

Con Freud, l’inconscio ha cessato di essere materia umbratile e arcana della sensibilità umana, diventando concreta materia di studio e di analisi. Se all’apparenza tutto ciò sembrerebbe tradursi in uno scambio di termini e in un’artificiosa teorizzazione di ciò che dopotutto era già noto, anche se sotto “mentite” spoglie, nella pratica la psicoanalisi ha attivato nuove e inaspettate risorse. Perché? Perché la parola di uno psicoanalista ha avuto maggior peso, per esempio, di quella di uno scrittore?

Le ragioni possono esser molte. Alcune sono semplicemente affidate al caso, a un’enigmatica fatalità che ha voluto che Freud fosse l’uomo giusto per il suo tempo. Ma proviamo a guardarci indietro e a leggere la psicoanalisi come poteva vederla l’uomo comune di fine ‘800.

Siamo nel cosiddetto secolo borghese, improntato al perbenismo e al culto dell’apparenza. Virginia Woolf parlava, nei suoi scritti autobiografici, di una tenda che separava la vita privata da quella di società. In ogni casa, c’era un salotto, dove si svolgevano i rituali dell’apparire nell’ora del tè; e in ogni salotto c’era una tenda, che mascherava il vero volto dell’intimità domestica. Quello che si mostrava all’esterno non era altro che una finzione, l’etichetta del buon costume; ma quello che accadeva dietro quella tenda, lontano dallo sguardo altrui, era la realtà vera. La rispettabile famiglia viennese di Doppio sogno di Schnitzler, riesumata ai nostri giorni dalla regia di Stanley Kubrick e tormentata da segrete fantasie di trasgressione, non è che un esempio, tra i tanti, del clima che regnava all’epoca.

Ora, immaginate che qualcuno venga a turbare la vostra quieta atmosfera di falso idillio domestico, sollevando quella tenda e andando a mostrare cose che proprio non si dovrebbero sapere. Di per sé è già uno scandaloso affronto. Ma se poi colui che si fa paladino del vero non è un artista, che potrebbe facilmente essere tacciato di dar seguito a una fantasia un po’ troppo fervida, bensì è un medico, uno scienziato, e ha anche argomenti validi per dimostrare quanto va dicendo… Vien da sé che gli effetti delle sue parole non potranno che essere rivoluzionari.

Si dà il caso che Freud si trovò a battere proprio la strada della sessualità, ossia il tabù per eccellenza – e non solo di fine ‘800. La sua prima provocazione era più di un’eresia. Il bambino, attestava lo psicoanalista, non è quell’anima pura e incontaminata che ci si ostina a descrivere, bensì è un essere – cito le testuali parole – “perverso polimorfo”. Solo a pronunciarlo sembra un insulto! Nello specifico, ciò stava a significare che, già nei primi anni di vita, egli era capace di sperimentare sensazioni di tipo sessuale, come il piacere della suzione durante l’allattamento, il piacere della ritenzione delle feci un po’ più tardi, e un vero e proprio desiderio sessuale di tipo genitale nei confronti della madre, durante il famigerato periodo del Complesso di Edipo. Sebbene difficili da digerire, simili constatazioni, supportate dall’evidenza clinica, entrarono a far parte delle conversazioni di salotto, dove i sostenitori e gli avversari della psicoanalisi trovarono di che discutere.

Non ancora appagato nella sua ricerca della verità, Freud decise di spingersi oltre, attestando che la maggior parte dei casi di isteria – malattia allora molto comune tra le donne – erano determinati da abusi di tipo sessuale perpetrati dai familiari sulle bambine. Nel 1896 lo affermava e meno di un anno dopo lo smentiva, dicendo che in realtà si trattava solo del residuo conscio di fantasie incestuose occorse nei primi anni di vita. Dunque, non di una realtà, ma di un’allucinazione del desiderio.

Lo studioso J.M. Masson, nel libro Assalto alla verità, sostiene che quella di Freud fu una consapevole abiura, dettata dalla paura di incorrere in un ostracismo troppo violento da parte della borghesia benpensante. Indubbiamente, i tempi non erano ancora maturi per parlare di incesto o di pedofilia. Ciononostante, le controversie generatesi attorno alle scandalose affermazioni di Freud produssero, come effetto immediato, l’abbattimento del tabù del sesso – dopotutto se anche i bambini avevano un’attività erotica, non doveva essere così peccaminoso per un adulto avvertire desideri di natura sessuale. E non era neanche più così peccaminoso parlarne, visto che stava nascendo una vera e propria “scienza” in materia. Il cambiamento di prospettiva non fu certo così immediato e fluido, ma sappiamo che, a cento anni di distanza, la moderna emancipazione sessuale è figlia di quella prima sfida.

Dunque, possiamo dire che effettivamente la psicoanalisi si è posta come un “modo di educare”: educare la coscienza collettiva all’abbattimento di gran parte dei suoi pregiudizi. Quelli inerenti alla sfera sessuale, ma anche e soprattutto quelli inerenti alla malattia psichica.

Va detto, tuttavia, che su questo secondo versante ha contribuito maggiormente la psicologia analitica di Gustav Jung, in ragione del fatto che il suo approccio alla malattia mentale è stato di gran lunga più creativo di quello del suo maestro. Se in Freud, infatti, permaneva un certo determinismo causa-effetto, che vedeva nel sintomo il segno immancabile di una patologia a sfondo nevrotico-repressivo, in Jung il sintomo diviene espressione creativa dei nostri più autentici desideri, e non solo di natura sessuale. Con Freud lo studio della malattia mentale ha assunto una sua dignità autonoma – non più appendice organica della medicina, bensì scienza autodiretta; ma è con Jung che ha cessato di essere malattia.

La grande differenza teorica tra i due psicoanalisti l’ha segnata la rimozione. Secondo Freud, infatti, il sintomo era l’espressione più evidente del tentativo della coscienza di respingere – rimuovere, appunto – desideri di carattere sessuale inammissibili. Compito dello psicoanalista, allora, era quello di smascherare ciò che rimaneva latente, sepolto e nascosto dal sintomo o dall’immagine onirica. Di tutt’altro parere era Jung, che vedeva tanto nel sintomo quanto nell’immagine onirica o archetipica, una sorta di incarnazione simbolica del mito personale di un uomo. Dove per mito s’intende l’insieme delle immagini “sacre” che muovono il nostro destino. Dunque il sintomo non nascondeva, bensì annunciava l’emergere di forme creative dall’interno della nostra psiche. Jung, ad esempio, considerava la nevrosi un tentativo – forse poco economico, ma sicuramente creativo – di esprimere la propria più autentica natura.

Se oggi la malattia mentale gode di un’approfondita analisi autonoma e autocentrata, e se si può avvalere di tutta una serie di sperimentazioni anche di tipo neuofisiologico, lo dobbiamo solo al fatto che un secolo fa è diventata argomento di un’indagine privilegiata, che l’ha sottratta al dominio della scienza medica, la quale – almeno allora – non era ancora pronta a indagarne le cause.

Questo dunque è stato il più grande contributo della psicoanalisi al nostro secolo: quello di aver smosso le acque, creando una tempesta ideologica, apportatrice di nuovi sviluppi. E come diceva Platone: “Ogni cosa grande sta nella tempesta”.

Bibliografia

Aldo Carotenuto, Breve storia della psicoanalisi, Bompiani, Milano 1999

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