Tra i fantasmi di San Pietroburgo

Sul biglietto da visita c’è scritto soltanto “Roberto Mauri, Infermiere professionale. Assistenza notturna e diurna”. Ma la sua vita racconta molto di più. Nel 1995, a ventitré anni, è partito come volontario in Bosnia, lavorando all’ospedale di Bihac, nel 1996 è stato inviato in un campo di profughi ruandesi in Zaire, e nel febbraio 1997, con l’organizzazione Médecins Sans Frontières, ha cominciato a lavorare in un ambulatorio di fortuna a San Pietroburgo, dove è restato sino all’agosto di quest’anno. Al suo ritorno ha accettato di parlare con Galileo.

Dopo due esperienze di guerra “vera”, in Bosnia e in Ruanda, cosa significa confrontarsi con un altro tipo di emergenza, quella di una metropoli di un paese industrializzato, per quanto ridotto al collasso?

“L’obiettivo della nostra missione era recuperare le persone senza fissa dimora. Ma di emergenze ce ne sono molte altre, e a descriverle non basterebbe una giornata intera. C’è quella dei bambini di strada, quella dei bambini negli istituti o in carcere, quella della prostituzione. Se dovessi dare una scala di priorità, darei la precedenza ai bambini in carcere, perché la situazione è davvero agghiacciante. Ancora prima di essere giudicati, infatti, i bambini vengono messi in una sorta di riformatorio. Dove devono passare due o tre anni in attesa di giudizio, in isolamento. Sembra inimmaginabile, ma è così”.

Ma questa non è un’emergenza di cui dovrebbe occuparsi una struttura sanitaria come MSF…

“In realtà lo è. Perché c’è bisogno di un medico che sappia distinguere le malattie dermatologiche e quelle sessualmente trasmissibili, che sia in grado di trattarle, e che abbia gli strumenti con cui farlo: ogni bambino che ha bisogno di un’aspirina deve aspettare che questa arrivi dall’estero. In Russia non c’è aspirina per nessuno” .

Quanti sono i barboni a San Pietroburgo?

“Paradossalmente, la Russia vive il grosso problema di essere uscita dal sistema comunista. Nel periodo sovietico l’incidenza del vagabondaggio nella società era vicina allo zero per cento. Adesso solo a San Pietroburgo vivono almeno 52.000 persone senza fissa dimora, nelle previsioni più ottimistiche. E certamente si tratta di un dato in crescita. Tra l’altro, perdere il diritto alla casa significa perdere il diritto all’assistenza sanitaria, a tutti i servizi di natura medico-sociale della Federazione russa. Ed è una cosa tragicamente facile”.

In che senso?

“Faccio una premessa: in Russia, l’unico documento di identità è il passaporto, uguale al nostro passaporto internazionale. Dopodiché, perdere l’identità, e dunque il diritto alla casa, è cosa di tutti i giorni. Per esempio se si finisce in carcere, indipendentemente dalla colpevolezza o innocenza, si consegna il passaporto all’entrata, ma non lo si riceve all’uscita. Ma si perde il diritto alla casa anche se si è invalidi o disoccupati, e quindi non si è in grado di dimostrare che si ha il denaro sufficiente per mantenere l’appartamento. Ai nostri occhi, riottenere il documento di identità è relativamente semplice. Ma agli occhi dei barboni di San Pietroburgo è inaccettabile. Esiste un servizio della polizia – che ti picchia ogni volta che può – che si chiama Centro di riabilitazione. A questo Centro ci si presenta dicendo, per esempio: “Sono nato a Mosca, ho vissuto a Volgograd e ho perso i documenti perché sono stato in prigione. Li rivorrei”. In teoria, il Centro dovrebbe prendere in consegna l’individuo, metterlo in una struttura protetta per un certo periodo, quello necessario alla polizia per ricostruire la sua storia, e una volta confermata l’identità, riprodurre il documento. La verità è che chi si presenta a questo centro viene tenuto in carcere per più di un mese, e non starò qui a raccontare cosa gli può succedere. Dopo questi quaranta giorni la maggior parte dei malcapitati non ottiene indietro il documento. In ogni caso, questi nuovi giorni di carcere sono la ragione per la quale, con una forza mai vista prima, i barboni rifiutano di ottenere il passaporto. Preferiscono stare sulla strada”.

Quindi non si può contare sulla polizia?

“La polizia non solo non collabora, ma è altamente corrotta e violenta. D’altra parte, gli agenti sono sottopagati – quando sono pagati – e viene da dire che in fondo qualche ragione ce l’hanno. Il problema è che se la prendono con il più debole, che già paga per mille altri, oltre che per se stesso. E non è così che deve andare”.

Possibile che sia così complicato riottenere la propria identità?

“Lo abbiamo verificato di persona, quando abbiamo cominciato a scavalcare questo servizio della polizia. Abbiamo assunto un medico che si occupasse di ricostruire la storia di queste persone, e di farla approvare presso il Ministero. Un lavoro da certosino: in due mesi gli ho visto fare un passaporto solo. E’ poco e non basta, ma è qualcosa”.

Cosa accade a quelli che rifiutano questo compromesso, e restano sulla strada?

“Restare sulla strada significa che puoi crepare sul marciapiede e che nessuno se ne accorge. Quelli che riescono ad arrivare al Pronto Soccorso possono risolvere un problema acuto, ma poi tornano sulla strada. L’incidenza delle patologie tra i barboni di San Pietroburgo è vicina al 40%. C’è chi ha bisogno di un’aspirina, chi di una chemioterapia, chi di un gesso per una frattura, chi di un’amputazione. La patologia più frequente è rappresentata dalle ulcere trofiche, ferite sulla pelle che non si chiudono facilmente, soprattutto in condizioni di sporcizia. In realtà basterebbe poco: la disinfezione, una crema antibiotica, un bendaggio e il controllo periodico”.

Con quali strutture riuscite a fare fronte a questa emergenza?

“La rappresentante di MSF che mi ha preceduto aveva preso dei contatti con un’organizzazione locale, che era riuscita a trovare un immobile offerto gratuitamente dal Comune. Un appartamento di questo immobile è stato offerto a MSF. Lo abbiamo pulito e ristrutturato, dai due locali abbiamo ritagliato un ambulatorio di semplice medicina di base. Somministriamo antibiotici e antidolorifici, facciamo il bendaggio, ogni tanto della minichirurgia: amputazione delle dita in cancrena. Pur essendo lontano dalle stazioni, che sono il cuore della vita barboni, abbiamo avuto in un mese 1000 consultazioni. Questo significa che il bisogno c’è. E in effetti l’ambulatorio era anche un pretesto per presentarsi al Ministero della sanità e agli ospedali, per dire “signori, c’è bisogno”.

Come erano i rapporti con le autorità locali?

“Abbiamo avuto qualche scontro con il rappresentate del Comune, ma siamo stati attenti ad affrontarlo con cautela. Ci rendiamo conto che lì, come ovunque, se dai troppo fastidio, qualcuno ha modo di mandarti via. Naturalmente c’erano compromessi difficili da digerire. Ma se avessimo rotto questi equilibri avremmo avuto solo svantaggi”.

E’ abbastanza assurda questa idea di passaporto come vero “certificato di esistenza in vita”

“Non solo. E’ agghiacciante il fatto che di questo documento esista un unico e solo originale. Chi lo perde resta senza identità. Infatti, noi di MSF avevamo la sensazione di lavorare con dei fantasmi, anche se tutti con una grandissima dignità e sensibilità. Con alcuni, al di là delle difficoltà di lingua, ho vissuto un mutuo rapporto di amicizia. E pensare a loro mi ha reso più difficile partire. E tuttavia, sono partito contento, perché ho detto: il mio tempo è arrivato. Sono alla fine del mio mandato, sento che chi mi sostituirà farà meglio di me”.

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