Categorie: Tecnologia

Un anello italiano a prova di spia

È stato chiamato “anello magico” e ricorda l’anello di Bilbo, ne Il signore degli anelli. Ma invece di incatenare i cuori, “intreccia” tra loro le particelle di luce e promette di rendere più sicure comunicazioni e acquisti su Internet. Davide Grassani, Stefano Azzini, Matteo Galli e Marco Liscidini capitanati da Daniele Bajoni, formano la squadra che all’Università di Pavia ha sviluppato questa promettente tecnologia e pubblicato lo studio sulla rivista Optica. Abbiamo chiesto a Bajoni di spiegarci di cosa si tratta.

Daniele Bajoni, cosa minaccia la sicurezza delle comunicazioni on-line oggi?
“La sicurezza dei dati è oggi garantita da protocolli matematici. Per criptare un messaggio si usano funzioni matematiche che sono estremamente difficili da invertire per decrittarlo. Non esiste però un teorema matematico che garantisca l’inviolabilità di messaggi codificati in questo modo: anche se non lo abbiamo ancora scoperto, potrebbe esistere un algoritmo in grado di decrittare i messaggi in modo semplice e con poche risorse computazionali. In tale caso la sicurezza verrebbe meno”.

Ci descrive il dispositivo che avete realizzato?
“Il dispositivo, sviluppato in collaborazione con le Università di Toronto e Glasgow, è un canale di silicio di sezione 500 per 220 nanometri (miliardesimi di metro) ripiegato ad anello. Qui le particelle che compongono la luce, i fotoni, si propagano senza uscirne, come succede nelle fibre ottiche. Vengono così prodotte coppie di fotoni che rimangono legati tra loro a prescindere dalla distanza che li separa, ad esempio se disposti su due diversi chip, ciascuno consegnato ad uno dei due protagonisti dello scambio. Questo particolare legame tra particelle, detto entanglement, è tale che se una spia provasse a leggere il dato codificato in uno dei due fotoni, l’altro renderebbe palese l’intromissione a chi si sta scambiando le informazioni criptate. L’inviolabilità della comunicazione è quindi intrinseca al sistema stesso”.

Qual è la novità principale apportata rispetto ad altri sistemi?
“Le sorgenti di fotoni entangled più usate oggi sono basate su cristalli grandi fino a uno o più centimetri, funzionano a temperature controllate e con laser molto potenti. Tutto questo rende molto alti i costi di operazione. Il nostro dispositivo è molto più piccolo, sicuramente più economico e ha bisogno di molta meno potenza a parità di efficienza. Inoltre, il materiale di cui è fatto, il silicio, è lo stesso con cui vengono costruiti microprocessori e memorie di computer e telefoni. Ha quindi le potenzialità per essere integrato su chip nel giro di 3-5 anni”.

Ha detto 3-5 anni: cosa manca al vostro dispositivo per essere implementato su chip?
“I due principali problemi da risolvere sono la riduzione delle perdite e l’integrazione dei rivelatori. Nel nostro esperimento riuscivamo a rivelare entrambi i fotoni entangled solo in un caso su un milione, gli altri andavano persi a causa di tutti i componenti esterni al chip e necessari al suo funzionamento. Inoltre i rivelatori che abbiamo usato funzionano con l’elio liquido: sono chiaramente incompatibili con delle vere e proprie applicazioni. Dovremo quindi sviluppare soluzioni più pratiche per miniaturizzare componenti esterni e rivelatori”.

Articolo prodotto in collaborazione con il Master Sgp della Sapienza Università di Roma.

Anna Lisa Bonfranceschi

Giornalista scientifica, a Galileo Giornale di Scienza dal 2010. È laureata in Biologia Molecolare e Cellulare e oggi collabora principalmente con Wired e La Repubblica.

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