“Un diritto della persona”

L’individuo morente, in condizioni di grande sofferenza fisica e psicologica deve essere rispettato e tutelato nel suo libero arbitrio. E’ questo il messaggio lanciato dal Congresso internazionale sulle decisioni di fine vita che si è svolto a Roma il 22 settembre scorso. Un’iniziativa che rientra nel progetto europeo Ethicatt, cui partecipa la facoltà di Sociologia dell’Università la Sapienza, organizzatrice dell’evento romano. Tra i numerosi relatori internazionali, c’era anche Jèrome Sobel, medico e presidente della sezione svizzera di Exit, una delle 30 organizzazioni in Europa che senza scopo di lucro sono impegnate nel diritto a morire con dignità. Galileo ha raccolto la sua testimonianza.

Dottor Sobel, qual è la sua qualifica professionale?

“Sono un medico otorinolaringoiatra e chirurgo maxillofacciale”.

Chi si rivolge a Exit?
“Quando un cittadino svizzero è in una grave condizione fisica e psicologia, affetto da una malattia allo stadio terminale, può contattarci. Noi, dopo un’attenta verifica dei requisiti e di tutta la documentazione, valutiamo se accogliere la domanda di suicidio assistito. A quel punto, inviamo qualcuno del nostro gruppo di lavoro o vado io stesso a trovarlo”.

Quali sono i requisiti che rendono ammissibile la richiesta?

“Prima di tutto la richiesta deve provenire da una persona ancora capace di intendere e volere, ed essere ripetuta a distanza di qualche giorno. La malattia di cui soffre deve essere dichiarata incurabile e le sofferenze devono essere intollerabili, sia dal punto di vista fisico che psichico. Occorre anche che la prognosi sia fatale. Non solo, il paziente deve essere in grado di autosomministrarsi il farmaco della ‘buona morte’”.

Qual è la differenza tra suicidio assistito ed eutanasia?

“E’ sostanziale: nessuno agisce per favorire la morte del malato, se non egli stesso. L’assistenza che Exit dà al morente è ben altra cosa. Noi ci assicuriamo che non ci siano interessi diversi da quelli di una caritatevole azione. Non devono esserci parenti in attesa di eredità o interessi personali di alcun tipo. Io personalmente sostengo i colloqui con il paziente e con la famiglia. Ogni caso è a sé e va valutato il contesto. Occorre, inoltre accertarsi che il paziente non stia attraversando fasi depressive ma che ci sia serenità nella decisione”.

E le cure palliative?

“A volte non possono nulla, soprattutto sulla sofferenza psicologica di chi è senza speranza e assiste a una degenerazione progressiva. Altre volte, la sedazione intensa peggiora solo lo stato di coscienza e di lucidità”.

Qual è il ruolo del medico in tutto ciò?

“Prescrive il farmaco, valuta il caso clinico, ma sostanzialmente fa l’accompagnatore. In Svizzera dal 2001 è stato sconfitto il forte tabù che ritiene contraddittoria la figura del medico che cura e salva la vita con quella del medico che accompagna alla buona morte. L’Accademia delle Scienze Mediche ha dichiarato che l’assistenza al suicidio assistito può essere considerata parte dell’attività medica. Ma chiunque, un amico o un familiare, può offrire la stessa assistenza senza essere perseguito per legge. Una volta mi capitò di avere al mio fianco un pastore amico del morente, che gli recitava i suoi salmi preferiti”.

Cosa prova quando assiste qualcuno nel momento della sua morte? In fondo è arrivata prima del tempo, anche grazie a lei…

“Quella persona era in ogni caso destinata a morire. Sento di aver fatto ciò che quella persona in tutta libertà e coscienza mi ha chiesto di fare. E’ un atto estremo di rispetto per la sua dignità. Ciò non mi sottrae a una grande commozione. Per qualche giorno questo sentimento mi coinvolge, ma mi dà anche la forza di continuare”.

E’ prevista un’assistenza psicologica per i volontari di Exit?

“Non in modo organizzato. Di certo con il mio gruppo condividiamo i singoli casi e li discutiamo a lungo. Ciò ci permette anche di avere un sostegno psicologico. Ma, probabilmente, lei ha ragione: è una delle questioni di cui dovremmo occuparci”.

Che cosa l’ha spinta a impegnarsi con Exit?

“Una storia personale. Mia nonna era gravemente ammalata e il suo dolore fisico era indescrivibile. Io ero molto legato a lei e a mio nonno. Sentirmi così impotente di fronte alle sue sofferenze mi ha fatto capire che la morte merita di essere vissuta con serenità e dignità, proprio come la vita”.

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