Un gene in fibrillazione

La fibrillazione atriale colpisce una persona su venti tra gli over 65. E finisce spesso con un incidente cardiaco. Solo in Italia, questa patologia interessa oltre mezzo milione di persone e cresce a un ritmo di circa 60 mila nuovi pazienti ogni anno. Ora un gruppo di ricercatori cinesi del Centro nazionale per il genoma umano e dell’Università di Tongji in collaborazione con il Cnrs francese, segnala su Science una delle possibili cause di questa anomalia del ritmo cardiaco: la mutazione di un gene sul cromosoma 11. Questa scoperta avrà certamente un impatto a lunga scadenza sul trattamento della malattia, ma nell’immediato permetterà di facilitarne l’individuazione, molto prima dell’apparizione dei sintomi. Lo studio si focalizza su quattro generazioni di una famiglia cinese, in cui ben 17 persone su 44 soffrono di fibrillazione atriale. Fatto sorprendente: tutti e 17 sono affetti da una mutazione genetica del cromosoma 11, peraltro assente nei soggetti sani. Nello specifico, la mutazione comporta la sostituzione di un nucleotide sul gene KCNQ1 dell’undicesimo cromosoma, un gene che agisce sul canale di produzione dello ione potassio. Come tutti gli altri canali di ioni, quello del potassio partecipa alla regolazione dell’attività elettrica dei miociti, ovvero le cellule che provocano le contrazioni regolari del muscolo cardiaco. L’impatto dell’anomalia genetica rivelata da questo studio è dunque evidente: modificando il flusso di ioni potassio nei miociti, se ne modifica l’attività elettrica, e di conseguenza si altera il funzionamento regolare del cuore.Il gene KCNQ1, e il suo effetto sul canale del potassio, era già stato associato ad altre patologie cardiache come la fibrillazione ventricolare e la sindrome del QT lungo, una malattia che può portare ad aritmie e sincopi. Nel caso della fibrillazione atriale, la mutazione genetica provoca l’apertura costante del canale ionico, mentre nella sindrome del QT lungo, una diversa mutazione dello stesso gene produce l’effetto contrario. I ricercatori rilevano anche che in una piccola minoranza dei casi osservati, i malati non presentavano la mutazione del gene KCNQ1, il che suggerisce che altri geni potrebbero essere coinvolti nello sviluppo della patologia.La fibrillazione atriale è una patologia molto temibile. In alcuni casi, infatti, la frequenza delle pulsazioni aumenta notevolmente (tachiaritmia), con sensazione di palpitazioni e mancanza di respiro. Più genericamente, venendo a mancare una contrazione regolare degli atri, il riempimento delle cavità cardiache risulta incompleto, e ciò può favorire ictus e infarto. Infine, negli atri fibrillanti, in genere dilatati, si può osservare un rallentamento del flusso sanguigno, che, a sua volta, facilita la formazione di trombi atriali. Tali coaguli si possono staccare ed essere trasportati dalla corrente sanguigna, raggiungendo successivamente organi distanti, come il cervello, o gli arti inferiori.Per curare la fibrillazione atriale i pazienti possono attualmente ricorrere a due vie terapeutiche. La prima, farmacologica, prevede la somministrazione di anticoagulanti, per prevenire i rischi tromboembolici, e di antiaritmici, per ripristinare il ritmo cardiaco fisiologico. Di recente è stata introdotta sul mercato una nuova famiglia di farmaci, basati sull’indobufene, che a parità di efficacia consentirebbe di ridurre in misura significativa l’incidenza di complicazioni emorragiche rispetto agli anticoagulanti. La seconda, non farmacologica, è nettamente più complessa, e implica l’uso di defibrillatori, pace-makers atriali ed eventualmente il ricorso alla chirurgia.

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