Un potenziale dimenticato

    Esiste un notevole divario fra la presenza della chimica italiana sulla stampa scientifica internazionale e l’importanza e la posizione della nostra industria chimica nel panorama produttivo mondiale. E’ possibile ogni mese leggere numerosi lavori scientifici di ottimo livello provenienti dalle nostre università e dai nostri centri di ricerca e sembrerebbe che a ciò debba corrispondere un apparato produttivo di analogo livello, una produzione di brevetti adeguata, una bilancia di pagamenti del settore chimico non disastrosamente negativa, un comparto ad alto valore aggiunto robusto e competitivo. Niente o poco di tutto ciò. Ai nostri governanti dovrebbe essere chiaro che un settore chimico forte è una delle caratteristiche di un paese avanzato; che è possibile delegare ad altri la produzione di acciaio e di automobili, ma che la chimica ad alto valore aggiunto è uno dei settori strategici per i quali vanno coltivate, mantenute sul territorio nazionale e rafforzate competenze, sinergie e capacità produttive. Le origini di una situazione insoddisfacente sono antiche e le connesse responsabilità sono da ripartire fra università, industria e governanti.

    Ripartire e dipanare ciò che è strettamente intrecciato è per la verità molto difficile nell’ambito di un articolo. Il lettore interessato può leggere nel libro della storica Nicoletta Nicolini “Il pane attossicato” la storia dei fiammiferi in Italia. Vi troverà un’ottima descrizione dei meccanismi con i quali si accumula un ritardo scientifico e industriale non solo in campo chimico: connivenze accademiche, inerzie governative, miopi interessi corporativi, protezione delle nostre industrie dalla concorrenza e dalla necessità di innovare. La storia raccontata dalla Nicolini inizia alla metà dell’800 e finisce come storia dei fiammiferi nel 1925. Vedremo più avanti come sia proseguita per tutto il ‘900 per altri capitoli della chimica.

    Da qualche parte bisogna cominciare e, vista la mia posizione “accademica”, comincerò dall’università. Cosa impedisce alle nostre università di svolgere una funzione propulsiva per il paese all’altezza delle competenze scientifiche in esse esistenti? La mia opinione è che ciò dipenda dal fatto che ciascuna di esse è un sistema chiuso, adiabatico. I contatti sono finalizzati all’evento principale della vita accademica: i concorsi a cattedra. Il reclutamento del personale scientifico delle università è il punto che rende improponibile qualsiasi confronto fra le nostre università e quelle degli altri paesi progrediti. Il problema del reclutamento negli altri paesi è risolto in questo modo: un giovane che abbia conseguito il primo diploma (il master ad esempio) in una università, prenderà il PhD in una università diversa e farà il post dottorato (o più post dottorati) in altre università. Molti di loro accumulano esperienze presso imprese industriali.

    Alla fine di un tale iter chi è sopravvissuto è senz’altro una persona di valore. Nel frattempo avrà reciso tutti i cordoni ombelicali con l’ambiente intellettuale di origine. Non c’è alcuna legge che obblighi ad un tale iter, è semplicemente una questione di costume: nessuna università offre un posto a chi non abbia fatto questo tipo di esperienze e nessun giovane che abbia aspirazioni scientifiche vi rinuncia. E’ questo, d’altra parte, l’unico modo per sperare in una moralizzazione dei concorsi universitari. Se tutti i candidati hanno alle spalle un tale curriculum e quindi nessuno di loro è allievo di qualcuno in particolare saranno, con più probabilità, già diventati indipendenti come uomini e come scienziati, e sarà assai meno probabile che un commissario di concorso voglia fare carte false per far prevalere uno di essi con meriti inferiori agli altri come invece da noi succede. Il ministro Berlinguer forse qualcosa del genere l’aveva capita e aveva tentato di introdurre degli incentivi per le esperienze fuori le mura. Le corporazioni accademiche l’hanno obbligato a far marcia indietro e a lasciare tutto il potere nelle mani delle cupole e semi cupole (questo è ormai il linguaggio abituale).

    Ma perché, da noi, un giovane che abbia aspirazioni scientifiche rinuncia tanto facilmente a quello che i suoi coetanei, nei paesi progrediti, considerano un loro diritto: la molteplicità delle esperienze intellettuali? Un giovane americano o inglese, tedesco o francese sa che in qualsiasi momento voglia interrompere le sue esperienze accademiche troverà nel mondo produttivo chi abbia bisogno delle sue capacità a qualsiasi grado di maturazione siano arrivate. Quel giovane vive in una società il cui apparato produttivo basa la sua prosperità sulla bontà e l’originalità del ritrovato scientifico e tecnologico. Da noi, almeno per la chimica, non è così, non è mai stato così. In tal modo ogni anno passato ad apprendere il mestiere del fare ricerca gironzolando per i laboratori di tutto il mondo (o anche stando fermi in un’unica incubatrice) è un anno perduto se si decide di smettere: nessuna industria valuterà l’esperienza e le capacità acquisite. I giovani che da noi nutrono aspirazioni scientifiche sono come degli acrobati che debbano piroettare senza una rete di protezione: è meglio stare fermi – anche perché gli outsider sono mal visti nelle nostre università – e affidare le proprie sorti a meccanismi loggiatici anche quando si è in possesso di tutte le attrezzature cerebrali necessarie.

    Il disinteresse dell’industria chimica per l’innovazione scientifica ha avuto origine nel comparto della produzione del farmaco, e si è diffuso inevitabilmente agli altri comparti. L’industria farmaceutica fu messa al riparo dalla concorrenza dalla necessità di innovare, negli anni Venti del secolo passato, con la legge che proibiva, con motivazioni ipocritamente umanitarie, la brevettazione in campo farmaceutico. Quella legge consentiva alle nostre industrie farmaceutiche di non riconoscere la legislazione brevettistica internazionale e di copiare a mano salva i brevetti stranieri. Da quel momento il comparto chimico farmaceutico, quello a maggior valore aggiunto e più ricco di know how, ha avuto bisogno di competenze chimiche soltanto nella misura necessaria a copiare i brevetti stranieri. Non era più necessario che le università producessero scienziati in grado di progettare e sintetizzare nuovi farmaci. Anzi bisognava controllare che esse non fossero produttrici indipendenti di idee scientifiche e una parte del vertice accademico si è prestato a questa opera di controllo per conto dell’industria farmaceutica. Soltanto in anni recenti e per l’intervento dell’Unione Europea, il nostro paese ha riconosciuto la legislazione brevettuale internazionale in campo farmaceutico. Era possibile farlo autonomamente già alla metà del secolo passato, durante il boom economico del nostro Paese, quando la lezione di Natta e il successo della scuola dei polimeristi italiani avevano indicato che là dove non esistono protezioni e privilegi si possono cogliere importanti successi scientifici, tecnologici e industriali. I danni arrecati da queste politiche all’economia e alla cultura del paese saranno lunghi da riparare. Si può essere ottimisti? L’apparato industriale sta abbandonando la strada della chimica pesante e a basso valore aggiunto? Stiamo inaugurando una politica di innovazione di prodotto?

    Le università, d’altra parte, negli ultimi venti anni hanno avuto di nuovo soltanto l’introduzione dei dipartimenti: alcune economie di scala sono state possibili soltanto dove il cambio da istituti a dipartimenti non è stato un cambio di etichetta. I cambiamenti da adottare per fare assomigliare un nostro dipartimento (di chimica ad esempio) ad un omonimo di un altro qualsiasi paese minimamente progredito sono enormi. Non farò una lista lunga. Parlerò anzi soltanto di quelle che gli inglesi definiscono “facilities”, le infrastrutture dipartimentali la cui mancanza, il cui cattivo funzionamento rallentano il lavoro, causano sprechi, frustrazioni e rendono spesso i dipartimenti come delle piste fangose inadatte a distinguere un ronzino da un puro sangue. Le facilities più importanti sono le grandi apparecchiature routinarie di ricerca. Esse vanno considerate alla stregua della biblioteca, o delle officine meccaniche. Nessun ente finanziatore richiederebbe la presentazione di un programma scientifico per finanziare la biblioteca o l’officina: essa fa parte delle facilities, degli strumenti di lavoro di qualsiasi istituto scientifico indipendentemente dalle ricerche dei singoli ricercatori che vi lavorano.

    Gli istituti stranieri che si rispettano vengono dotati sempre dell’ultimo modello dello spettrometro di massa o dello spettrometro di risonanza magnetica nucleare per il semplice fatto che in quell’istituto, come dimostrano le pubblicazioni scientifiche allegate alla richiesta dipartimentale di finanziamento, il precedente modello è stato molto usato, per scopi e programmi scientifici anche molto diversi, da tutto il personale scientifico. Non acquistarlo significa ridurre il livello di competitività del Dipartimento. Il programma scientifico va richiesto invece se un solo ricercatore o un solo piccolo gruppo di ricerca pensa di poter saturare il tempo macchina di quel costoso strumento. Per uno strumento di uso routinario l’ente finanziatore deve invece richiedere uno statuto di utilizzo che garantisca il servizio, sia tramite personale tecnico, sia per uso diretto di ogni ricercatore che abbia ricevuto il necessario addestramento. In un dipartimento efficiente le grosse apparecchiature di ricerca funzionano ventiquattro ore al giorno con turni, prenotazioni, personale tecnico elettronico e meccanico per le necessarie manutenzioni.

    Se non si garantisce questo livello di efficienza le apparecchiature funzionano poche ore al giorno non riuscendo a smaltire tutto il lavoro necessario. Questo è il meccanismo che genera la proliferazione di apparecchiature sotto utilizzate che, naturalmente, non potranno essere quelle più avanzate esistenti in commercio. Queste infatti sono spesso troppo costose perché se ne possano acquistare più di una per dipartimento. A volte i costi di acquisto e di esercizio, le competenze necessarie per il funzionamento sono così sofisticate e numerose che non si può pensare altro che a strutture regionali o nazionali. Naturalmente i programmi di ricerca vanno chiesti ai singoli ricercatori per l’accesso all’uso di queste ultime apparecchiature, non per la loro costruzione o acquisto. Ma perché i finanziatori non impongono questi livelli di organizzazione delle strutture di ricerca? Perché continuano a chiedere programmi di ricerca anziché statuti di utilizzo? Perché continuano a tollerare lo spreco di denaro pubblico nell’acquisto di molte apparecchiature inadeguate? La ragione è semplice: i finanziatori fanno essi stessi parte del sistema finanziato, devono garantirsi un elettorato accademico, devono accontentare molti feudatari, devono poter dire “sì” a Tizio e “no” a Caio. Finanziare una struttura collettiva anziché i singoli non genera clientelismo.

    In Italia l’unica comunità scientifica che sia riuscita ad evitare questi fenomeni è quella dei fisici: essi sono riusciti a rappresentare sia gli interessi della loro disciplina sia quelli scientifici del paese, in fisica, dotandosi di una struttura a grandi maglie nazionali (tipo INFN) nella quale tutti sono inclusi. Certo alla metà del ‘900, per loro, la transizione verso le grandi macchine da ricerca era obbligatoria. I chimici (ma non solo loro) facevano contemporaneamente una scelta del tutto diversa: quella dei centri di ricerca CNR sparsi in tutte le università e dotati non solo, e ovviamente, di autonomia scientifica ma anche di autonomia logistica e organizzativa pur trattandosi spesso di strutture omonime. Nelle intenzioni quello dei Centri CNR era un meccanismo alternativo (alle grandi strutture della fisica) per finanziare la ricerca universitaria. Quando questa scelta fu fatta la transizione della chimica verso l’uso di costosi strumenti di ricerca era appena iniziata e tuttavia, da subito, la scelta si dimostrò inadeguata a garantire un livello avanzato di strumentazione per tutti i Centri CNR e quindi per la ricerca universitaria. Nulla è cambiato da allora a livello organizzativo tranne il fatto che ormai nessuna ricerca in chimica può essere fatta senza disporre di grandi strumenti. Quello che era stato concepito come “il meccanismo” di finanziamento della ricerca universitaria ha ormai l’aspetto di una pelle di leopardo rigida, esclusiva e incapace di includere neppure tutti gli interessi scientifici omogenei.

    Le scelte di cinquanta anni fa vengono mantenute anche quando non corrispondono più ad alcuna necessità pedagogica delle università. Perché l’uso delle grandi apparecchiature non soltanto ha avuto l’effetto di escludere dalla competizione scientifica chi non le possiede o le gestisce in modo insipiente, ma anche quello di svuotare di importanza pedagogica alcuni tipi di ricerca. E’ questo il caso della chimica delle sostanze naturali, molte delle quali hanno preziose proprietà farmacologiche. La struttura di queste sostanze veniva indagata, una volta, per via chimica demolitiva. Questo tipo di ricerche era anche una palestra adatta ad allevare una competenza tipica di un chimico: la capacità di collegare fra loro strutture e proprietà delle sostanze. Per la loro importanza pedagogica, questi studi venivano quindi coltivati nelle università anche quando le sostanze studiate non erano importanti dal punto di vista farmaceutico. L’introduzione delle tecniche strumentali spettroscopiche ha enormemente semplificato gli studi strutturali che sono così diventati appannaggio dello spettroscopista più che del chimico. Alla fine la struttura che viene fuori, rapidamente e in grande dettaglio, è però soltanto un disegno di una sostanza le cui proprietà chimiche nessuno conosce perché nessuna reazione chimica è stata fatta per studiarla e perché le capacità di collegare struttura e proprietà si stanno perdendo e andrebbero coltivate in altro modo.

    E lo studio delle sostanze naturali non dovrebbe essere più coltivato? Basta pensare al fatto che la grande maggioranza delle sostanze che usiamo a scopo medicinale è di origine naturale o costruita a imitazione di quelle naturali, basta riflettere sul fatto che conosciamo una piccolissima parte di quelle sostanze e delle loro funzioni in natura per concludere che questi studi sono ancora della massima importanza. Quelle che abbiamo studiato finora sono le sostanze più abbondanti. Erano steroidi, alcaloidi, terpeni, polisaccaridi, polipeptidi… Vi abbiamo trovato ormoni, vitamine, antibiotici, veleni, profumi, insetticidi, coloranti Tutte sostanze che i chimici hanno poi imitato o modificato adattandole a una miriade di usi. Sono sostanze di grande diffusione commerciale e di alto valore aggiunto: sono anche quelle che conferiscono il segno meno alla bilancia commerciale del nostro paese in campo chimico. E’ una situazione accettabile? Non credo. E tuttavia io dubito che questi studi siano ancora perseguibili in ambito universitario, in strutture sotto dimensionate e sparse sul territorio. Mi parrebbe più adatta una struttura a carattere nazionale, largamente interdisciplinare, nella quale confluissero le competenze del farmacologo, del tossicologo, dell’entomologo, del fisiologo vegetale, del biologo in generale oltre che del chimico e dello spettroscopista. Una struttura dotata di mezzi finanziari e strumentali adeguate in grado di competere a livello internazionale. Quando i nostri governanti parlano di innovazione tecnologica e di competitività del “sistema Italia” hanno in mente anche questi problemi?

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