Una bomba ancora da disinnescare

Questo articolo è concepito come premessa alla discussione della relazione tra risorse e popolazione: comprendere quale sia la situazione, come e perché ci si sia arrivati, e quali sono gli sviluppi futuri previsti, è infatti fondamentale per il dibattito. Tenterò anche di gettare luce sui principali meccanismi demografici, non sempre ovvi, che condizionano la dinamica della popolazione. Seguono poi alcune considerazioni finali di carattere più generale.

La situazione

La prima domanda che è istintivo porre a un demografo è: «Quanti siamo?». Per i più pigri di noi (demografi), oppure per chi non ha sottomano uno specialista da interrogare, sono stati inventati i Population clocks (2), che sono consultabili sul Web (vedi per es. [20] e [22]). Sempre grazie al Web, non è più necessario sforzarsi di calcolare di quanto l’umanità si accresca per unità di tempo: poco più di due persone al secondo, che fanno un jet pieno di passeggeri al minuto, o due grandi stadi affollati al giorno. I figli messi mediamente al mondo da ogni donna sono pari a 2,7 (3); la speranza di vita alla nascita è invece di 65 anni per gli uomini e di 69 per le donne. Il tasso di incremento è del 12 per mille: se restasse invariato, porterebbe a un raddoppio della popolazione in 58 anni.

I dati mondiali mascherano però situazioni molto differenti: nei paesi ricchi si muore, ma anche si nasce, meno (4). In realtà, il legame con l’alta natalità è riconducibile non tanto al reddito quanto alla dimensione tradizionalismo/modernità: per rendersene conto, si confrontino i dati sulla fecondità di società ricche ma arcaiche quali Arabia Saudita o Kuwait con quelli di molti Stati membri dell’ex-Unione Sovietica, relativamente poveri ma vicini ai paesi a sviluppo avanzato (PSA) dal punto di vista culturale. Per capire meglio a cosa si debba questo stato di cose, occorre risalire al passato, partendo anzitutto dalla spaventosa progressione della popolazione mondiale negli ultimi due secoli [1, 10 p. 5, 13,  18 p.11, 19, 25 p. 11 e 13] (Figg.1 e 2).

La popolazione nel passato

Con la locuzione «transizione demografica»(d’ora in poi abbreviata in TD) si designa il passaggio dal regime antico di alti flussi (molte nascite per donna e morte precoce) a quello moderno, caratterizzato da poche nascite e poche morti in proporzione alla popolazione: i paesi europei hanno cominciato a sperimentare questa trasformazione quasi contemporaneamente alla rivoluzione industriale. Nel corso di questo processo, normalmente prima scende la mortalità (5) – specialmente quella relativa ai primi anni di vita – e solo in seguito, superando resistenze anche culturali, declinano fecondità e, infine, (conseguentemente, ma non contemporaneamente) nascite. Nel frattempo, si registra una divaricazione tra tasso generico di natalità e di mortalità, in precedenza assai vicini nel lungo periodo. La popolazione quindi si accresce notevolmente, in funzione anche dell’ampiezza e della durata temporale di questo divario; solo nell’ultima fase i due tassi generici tendono a riavvicinarsi (vedi [25 p. 18]). Nel frattempo, il calo delle nascite, unito a un aumento della longevità, produce l’invecchiamento della popolazione (6); del perché sia usuale scendano prima la fecondità e poi le nascite diremo più avanti.

Possiamo interpretare la TD seguendo approcci diversi ma tra loro complementari; rispettivamente, quello sociologico, quello economico e quello sistemico:
valori: la TDè espressione culturale della secolarizzazione, sia essa considerata un fenomeno degenerativo rispetto alla morale tradizionale o sia essa vista con favore come tappa di emancipazione;
convenienza individuale: fare figli diventa un investimento sempre più costoso perché, con la crescita della presenza – e della retribuzione – femminile sul mercato del lavoro, comporta la rinuncia a un componente potenzialmente importante del reddito familiare (quel che gli economisti chiamano «costo-opportunita»); nello stesso senso vanno la scomparsa della domanda di lavoro poco qualificato svolto dai bambini in attività tradizionali perlopiù legate all’economia familiare (mansioni domestiche, accudire piccoli animali, lavori nei campi), l’allungamento dell’obbligo scolastico (spesso accompagnato dal divieto del lavoro minorile), l’elevarsi dello status dell’infanzia e con esso, degli standard di mantenimento. D’altra parte l’esistenza di sistemi previdenziali, specie pensionistici, rende superfluo generare molti figli per garantirsi un reddito in vecchiaia; più in generale, molti servizi precedentemente garantiti dalla famiglia possono venire reperiti sul mercato (il tema è trattato molto bene in [4 cap. III]);
autoregolazione: l’incremento causato dalla caduta della mortalità non è sopportabile per il regime demografico; scattano quindi dei meccanismi di compensazione, che portano anche la fecondità ad abbassarsi. In questo senso, norme morali e cultura possono essere viste come funzionali al mantenimento di equilibri necessari alla sopravvivenza delle popolazioni: la sfera familiare così come quella sessuale dovrebbero allora la propria preminenza morale al ruolo cruciale della riproduzione nel perpetuarsi dei gruppi umani, che non possono permettersi una natalità né eccessivamente elevata né troppo ridotta rispetto ai decessi; naturalmente la diminuzione della mortalità viene di norma accettata senza resistenze, mentre l’adeguamento dei comportamenti relativi alla fecondità richiede tempo e un faticoso adeguamento culturale.

La crescita demografica del terzo mondo

Nei paesi più arretrati la medicina occidentale è stata importata a uno stadio già avanzato, e ha abbassato drasticamente la mortalità, specie infantile. La compresenza di una fortissima natalità ha prodotto per qualche decennio tassi di incremento assai elevati; negli ultimi cinquanta anni i paesi in via di sviluppo (PVS) hanno però sperimentato cospicue riduzioni nella fecondità, in media da sei a tre figli per donna (7). Questa dinamica ha inoltre provocato un imponente cambiamento della composizione della popolazione mondiale, dal momento che i paesi a sviluppo avanzato sono cresciuti assai meno (vedi Tab. 1).

Alcune considerazioni tecniche

La prima considerazione riguarda il tasso di incremento annuo della popolazione: se resta costante, genera una crescita esponenziale che ha una forza incontenibile sul lungo periodo, anche con r (vedi riquadro a p. 8) piuttosto bassi, purché naturalmente positivi (8): è quindi difficile che un tasso di incremento permanga invariato molto a lungo. Dalla rivoluzione industriale in poi, lo sviluppo demografico dell’umanità è tuttavia stato vicino proprio al modello della crescita esponenziale, con incrementi sempre più ravvicinati nell’ordine di un miliardo di persone (Fig. 2) (9). Solo negli ultimi decenni il tasso di incremento ha cominciato a declinare, pur restando ampiamente positivo: ma a un tasso di incremento declinante possono corrispondere incrementi annuali assoluti crescenti [18 p. 15, 25 p. 1], perché la base di riferimento si allarga; il fatto che gli incrementi assoluti annuali comincino a diminuire, pur restando positivi, si traduce visivamente nel fatto che la curva dell’ammontare della popolazione da concava diventa convessa verso l’alto.

Un aspetto molto importante è poi la struttura delle diverse popolazioni rappresentata dalla piramide per età (10); benché la popolazione possa essere studiata anche secondo altre caratteristiche (stato civile, titolo di studio, sesso, localizzazione geografica, urbanizzazione, reddito ecc.), l’età è decisiva in pressoché tutti gli eventi basilari dal punto di vista demografico, decessi e nascite anzitutto. L’andamento in una popolazione dei rispettivi tassi generici (mortalità e natalità) risulta quindi dalla combinazione tra struttura per età, raffigurata appunto nella piramide, e propensione a subire un certo fenomeno. Questa propensione viene colta dai tassi specifici per età, che forniscono una raffigurazione del comportamento medio alle diverse età dei singoli appartenenti a una popolazione, senza quindi la mediazione della struttura per età (11) o l’interferenza di altri fenomeni quali mortalità o migrazioni. I tassi generici rappresentano infatti la media ponderata (rispetto al peso della classe d’età) della popolazione totale di quelli specifici, e ne annacquano la portata descrittiva: questa è infatti sacrificata in cambio di altri vantaggi, in primo luogo sintesi e semplicità. Il fatto che i tassi generici diano informazioni in un certo senso «di superficie»sugli andamenti demografici, fa sì che anche il tasso di incremento abbia scarso valore strutturale (in altre parole, scarsa capacità descrittiva della tendenza a lungo termine); una popolazione può infatti avere ancora un rquasi nullo anche se il livello di fecondità farebbe attendere un decremento spiccato: questo accade perché la struttura per età, pur non giovane, ha le classi più anziane – che non si riproducono più (12) –  relativamente sottorappresentate. Quando le generazioni più numerose raggiungeranno le età più avanzate, i decessi aumenteranno bruscamente e si avrà una discesa accentuata nel totale della popolazione.

Questo si verifica anche nel caso inverso, e anche per altri fenomeni. Prendiamo il caso di una popolazione giovane perché con una storia di alta fecondità. Se d’improvviso questa fecondità scende, il numero assoluto di nascite può continuare ad aumentare perché il contingente di potenziali genitori cresce per qualche lustro ancora: l’ammontare dei bambini di oggi, destinati a entrare in età riproduttiva dopo la pubertà, è frutto dei comportamenti demografici precedenti. Questo effetto di trascinamento si chiama inerzia demografica(in inglese, population momentum); se ne può misurare l’ampiezza immaginando quale sarebbe l’incremento della popolazione se la combinazione tra fecondità (soprattutto) e mortalità si situasse di colpo a livello di rimpiazzo, che corrisponde a un tasso netto di riproduzione pari ad uno [24 pp. 259-67, 18 pp. 18-20].

Le previsioni al 2050

La divisione demografica delle Nazioni Unite pubblica da decenni (13) sia rapporti approfonditi sullo stato della popolazione mondiale sia previsioni sulle tendenze future. Nel ventaglio di previsioni formulate, quella media è ritenuta la più verosimile: nel caso della revisione 2002 [15], si basa sull’ipotesi di continuazione del calo della mortalità, ma soprattutto della fecondità, nei paesi ove essa è più elevata. In particolare, si è presupposto che la fecondità debba convergere verso il livello di sostituzione, pur mantenendo qualche differenza regionale: 2,02 figli per donna a livello mondiale, con una differenza per aggregati che spazia da un minimo di 1,84 per l’Europa a un massimo di 2,47 per i paesi meno sviluppati (l’84 per cento della popolazione mondiale dovrebbe vivere entro il 2050 in paesi che hanno raggiunto il livello di rimpiazzo: vedi [15 p. 8; cfr. anche pp. 1-4 e 18]. La novità della revisione 2002 rispetto alla precedente (2000) consiste nell’aver abbassato di 400 milioni il livello previsto della popolazione al 2050, da 9,3 a 8,9 miliardi. Questo mancato aumento può ricondursi per metà a un calo di fecondità più rapido del previsto, e per altri 200 milioni a un aumento della stima della mortalità dovuta all’AIDS, ritenuta particolarmente elevata fino almeno al 2010.

Tre scenari per il 2300

Le Nazioni Unite hanno provato a formulare previsioni di lunghissimo periodo: una mossa azzardata, si trattasse di un lavoro eseguito con la pretesa di fornire indicazioni affidabili. Come mostra anche la divergenza tra le varie ipotesi (Fig. 4), si tratta in realtà di un’esercitazione teorica, pur con coloriture visionarie. Sebbene le ipotesi di partenza sembrino accettabilmente realistiche e non così lontane una dall’altra nei differenti scenari, il mantenimento di differenze apparentemente non eclatanti (14) su un arco di tempo così prolungato (15) produce esiti incomparabili, a volte paradossali. Anche prescindendo dall’ipotesi di fecondità costante (16), questo è ben visibile con un semplice colpo d’occhio sul grafico dei totali. In ognuno degli scenari il peso dei PSA è destinato a ridursi grandemente, e il processo d’invecchiamento a continuare (17).

Considerazioni finali

Pensando all’impressionante progressione dell’ammontare della popolazione umana negli ultimi secoli è inevitabile avere la sensazione di stare danzando sull’orlo del precipizio: le previsioni di ulteriori incrementi al 2050, e un successivo possibile assestamento, partono difatti da quest’impennata inaudita, verificatasi soprattutto a partire dal XVIII secolo. È ben vero che il tasso di incremento sta diminuendo ma, come già ricordato, la popolazione aumenta finché questo resta positivo; giochiamo inoltre con numeri elevatissimi: piccoli scostamenti proporzionali hanno enorme rilievo assoluto, per tacere dell’amplificazione che la dinamica esponenziale produce su differenze anche lievi nel tasso di crescita (è questa la lezione delle previsioni al 2300). Anche se la popolazione mondiale si stabilizzerà, potrebbe dunque farlo a un livello troppo elevato, foriero di conseguenze nefaste. Certo, gli avversari della classica visione catastrofista – che normalmente si accompagna alle considerazioni che sto facendo – hanno diverse frecce al loro arco: le campane d’allarme dei maltusiani hanno in passato suonato a sproposito. È da fine Settecento che si preconizza il disastro: nell’attesa, l’umanità ha raggiunto traguardi grandiosi, specialmente sul piano del benessere: tenore di vita e totale della popolazione hanno marciato trionfalmente fianco a fianco, facendosi beffe delle teorie demografiche. Continuare a gridare «al lupo»non giova al prestigio di chi lancia moniti: non è però detto che quello che non è successo in passato non debba succedere in avvenire. Inoltre, la percezione delle catastrofi da parte dei posteri non è la medesima dei coevi. Noi siamo i sopravvissuti: le tragedie del passato, specialmente quelle più antiche, non evocano in noi alcuna passione.

Un’obiezione più raffinata all’ultimo dei miei argomenti (si sono raggiunti livelli così alti che piccoli scostamenti proporzionali sono comunque enormi) è la seguente: ciò che realmente conta sono le differenze dinamiche, di proporzioni e tassi, e non i numeri assoluti; benché sia vero che una crescita che rallenta rimane pur sempre una crescita, la pressione che questa esercita è assai minore di quella che si registra con un tasso d’incremento costante o, peggio, in aumento. Vi sono fondamenti solidi per queste argomentazioni, per esempio il fatto che occorre dare tempo ai corpi sociali per adeguarsi al mutamento, che viene spesso percepito come proporzionale (18); mi pare comunque non sia possibile ignorare l’importanza delle questioni legate alle cifre assolute. Ma anche dal punto di vista dei rapporti relativi, si rischia un’ondata di piena insostenibile, prima che la forza dell’incremento demografico possa rifluire.

Esiste curiosamente anche una sorta di «catastrofismo popolazionista», condiviso tra l’altro da molti demografi: indico con questa espressione un’angoscia per il futuro basata non sulla minaccia dell’esplosione demografica, bensì su quella dell’invecchiamento, conseguenza del declino della fecondità. Si tratta di un timore condivisibile per i PSA, e più in generale per i paesi la cui fecondità è calata bruscamente, come è il caso della Cina; ma quest’allarme va ridimensionato sulla base di alcune considerazioni. A questi contro-catastrofisti si può muovere anzitutto il rimprovero, di sapore lomborghiano, di sottovalutare le possibilità della tecnologia: in primo luogo la possibilità che la produttività del lavoro in futuro si elevi talmente da attenuare gli inconvenienti dell’invecchiamento sul piano previdenziale; inoltre, la tecnologia può fare molto per facilitare la vita agli anziani (un esempio tra i molti possibili: la spesa online, destinata se non altro a facilitare l’assistenza a distanza); infine, i prevedibili progressi in campo biomedico, che dovrebbero sostenere la tendenza a prolungare non solo la vita in sé, ma soprattutto quella in soddisfacenti condizioni di salute: così come i sessantenni di oggi non sono più dei vecchi, così potrebbe succedere agli ottantenni del 2050. Non va comunque dimenticato che anche una struttura per età decisamente giovane ha degli inconvenienti, tra i quali la disoccupazione giovanile e la tendenza alla violenza, non collegata solo ai disagi occupazionali (19). Non si dimentichi che tra le contrapposte posizioni di principio popolazionista (che auspica l’aumento della popolazione) e restrizionista (che lo teme), la seconda – ispirata alla filosofia utilitaristica, che assume a criterio etico generale il benessere dei singoli – è tipica delle democrazie liberali. La prima invece ha spesso contraddistinto regimi assoluti e dittature (20).  

NOTE
(1)Questo articolo è una rielaborazione del contributo per il convegno Demografia e consumi… quali limiti?, promosso dalla Lista Bonino alla Regione Piemonte, Torino 15 gennaio 2005.

(2)Alle 15 del 7 gennaio 2006, siamo circa 6.582.881…000 [20].

(3)Vedi la voce «Tasso di fecondità totale»nel riquadro «Le misure demografiche»a p. 8.

(4)Vedi [2] per le nazioni in ordine di fecondità, e [12] per dati più completi per nazione.

(5)Unica eccezione di rilievo, la Francia dal XVIII secolo in poi.

(6)Inteso ovviamente in senso collettivo (popolazione composta da membri di età media più elevata) e non individuale: l’invecchiamento anagrafico ha sempre lo stesso passo, anche se il progresso porta normalmente con sé anche una maggior tenuta biologica a parità d’età rispetto alle generazione precedenti.

(7)Per metà ciò è merito della riduzione del TFTcinese. Su questo e altri argomenti qui trattati è utile il testo di Massimo Livi Bacci [24] e A. Golini [14]. Nel paragrafo successivo, vedremo come possono coesistere alta natalità, magari anche crescente per qualche tratto, e fecondità decrescente.

(8)Una formula approssimata per i tempi di raddoppio è: 70 diviso l’incremento percentuale. Un tasso del 2 per cento implica quindi un raddoppio in 35 anni circa.

(9)Si noti che i miliardi aggiuntivi evidenziati nella figura 2 equivalgono al totale raggiunto in tutta la storia evolutiva dell’Homo sapiens al 1800. Vedi anche [24 p. 257; 14 p. 12].

(10)Un esempio in [8]; interessante il confronto tra vari tipi di piramide per età in [17, pp. 4-6] e in [23 p. 10 (cfr. anche p. 8)] e in [14 p. 12].

(11)Facciamo un esempio: una nazione ove si è molto longevi potrà comunque avere un alto tasso generico di mortalità se composta quasi esclusivamente di novantenni; il fatto che individualmente si viva a lungo non impedisce che al momento ci sia un elevato numero di decessi rispetto al totale dei presenti. Viceversa, una popolazione può avere un modesto tasso generico di mortalità pur essendo caratterizzata da probabilità di morte elevata a ogni età: è infatti sufficiente che la popolazione appartenga a fasce d’età nelle quali in ogni caso si muore poco. Non si tratta di uno strambo esempio d’accademia: è questo quanto effettivamente succede oggi nei paesi più poveri, allo stesso tempo molto giovani e con mortalità forte; per questo motivo il tasso generico di mortalità di diversi paesi africani è molto vicino a quello italiano (vedi ad esempio i dati di Eritrea, Gabon, Ghana, Madagascar, Senegal, Sudan e Togo in [12]).

(12)Perlomeno sino al tempo presente: non ci è dato sapere cosa ci riservi il futuro in termini di innovazioni scientifiche e sociali.

(13)Dal 1951, per l’esattezza; per qualche raffronto cfr. [16], p. 29.

(14)Il lavoro parte dal 2050, riagganciandosi agli scenari a medio termine qui discussi. Lo scenario medio ipotizza una fecondità al 2050 sotto il livello di sostituzione, che viene poi raggiunto dopo 100 anni; quello alto presuppone un quarto di figlio a donna (la misura di riferimento è il TFT, vedi riquadro a p. 8) in più che il medio, quello basso un quarto di figlio a donna in meno; le assunzioni su migrazioni (nessuna migrazione netta) e mortalità (allungamento costante della speranza di vita) sono invece comuni ai tre scenari. Una parola sulla quarta variante, detta zero-growth, assai vicina a quella media: qui si ipotizza una fecondità tale che a partire dal 2050 in ogni popolazione le nascite bilancino i decessi.

(15)Il fatto stesso che un determinato livello di fecondità venga mantenuto costante per lunghissimi periodi è di per sé improbabile: ma si tratta anche dell’ipotesi più naturale per previsioni così a lungo raggio. L’imprevisto, e anche la naturale fluttuazione dei comportamenti, vengono così esclusi dalle possibilità contemplate: un difetto insito anche nelle visioni utopistiche, rese irrealistiche anche dal loro nitore costruttivo.

(16)Se, è evidente, rimanesse ai livelli del 1995/2000, al 2300 la Terra avrebbe 133.592 miliardi di abitanti (cfr. [16 p. 9]): è evidente questo significa che la fecondità nel mondo deve in ogni caso scendere.

(17)Nello scenario medio gli ultraottantenni passano a livello mondiale dal 2 per cento del 2000 al 17 per cento del 2300, superando il gruppo d’età più giovane (0-14 anni) che passa dal 30 per cento al 16 per cento; cfr. [16] pp. 23-6 (34-7/49).

(18)L’approccio maltusiano dedica normalmente molta attenzione ai livelli statici, per esempio alle risorse che possono esaurirsi benché il livello disponibile di queste è in verità una combinazione tra un massimo fisico e fattori socioeconomici. Un’approfondita discussione di questi aspetti, condotta dal punto di vista antimaltusiano, in [9].

(19)Una discussione sulla questione in [6 §1.1].

(20)Non manca chi ritiene positivo l’aumento di popolazione (in sé, a prescindere dall’invecchiamento) anche da un punto economico, a causa principalmente delle economie di scala (in particolare una più agevole suddivisione dei costi delle infrastrutture), del contributo alla domanda aggregata e di una più articolata divisione del lavoro. Anche su questo cfr. [6 §1.1].

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[20] U.S. CENSUS BUREAU,  «Population clocks»: www.census. gov/main/www/popclock.html.

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[24] LIVI BACCI M., Storia della popolazione del mondo, Il Mulino, Bologna 2002.

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