Una ricerca a senso unico

Per chi sono un problema i problemi sociali? A voler essere sinceri,
dobbiamo ammettere che sono un problema per coloro che stanno al
di fuori dei confini di ciò che abbiamo definito come problema.
William Ryan, 1971

Regno Unito, marzo 2002. Sir Michael Rawlins, presidente dello ACMD (Advisory Council on the Misuse of Drugs), organo di consulenza scientifico del governo britannico sul problema delle droghe, risponde al Segretario di Stato che nell’ottobre 2001 aveva richiesto un parere sulla classificazione della Cannabis indica nelle tabelle della legge antidroga: al tempo, la canapa era compresa nella tabella B, insieme alle amfetamine, ai barbiturici e ai composti a base di codeina.

Il professor Rawlins, a nome del Consiglio, scrive che «la classificazione corrente della canapa è sproporzionata, sia rispetto alla sua inerente tossicità, sia rispetto a quella di altre sostanze (come le amfetamine), contenute nella tabella B». La lettera invita perciò il governo a “declassificare” la canapa nella tabella C, insieme a sostanze di minor rischio per la salute pubblica. Alla lettera è allegato un rapporto scientifico, volutamente redatto «in uno stile accessibile al grande pubblico» (come si premura di precisare il presidente dello ACMD) poiché l’informazione è ritenuta parte fondamentale di una corretta prevenzione, o educazione alle droghe che dir si voglia. Lo stile divulgativo niente toglie al valore scientifico del Rapporto, basato, com’ è opportunamente sottolineato, su «un esame dettagliato della letteratura scientifica rilevante, comprendente quattro revisioni commissionate dal Dipartimento della Salute nel 1998 e un aggiornamento del novembre 2001» [1]. Oltre ai dati epidemiologici, il documento passa in rassegna i rischi acuti correlati al consumo e quelli a lungo termine, nonché la ben conosciuta questione della marijuana come “droga di passaggio” ad altre sostanze più pesanti. Sono sottoposte a uno scrutinio approfondito, e sostanzialmente rigettate, alcune fra le più note imputazioni rivolte alla canapa sino dagli inizi del Novecento: la capacità di indurre dipendenza, i possibili danni cerebrali indotti, il nesso causale fra l’assunzione della sostanza e la malattia mentale, in particolare la schizofrenia. Sull’ultimo punto, il rapporto recita: «Sebbene la questione sia stata dibattuta da oltre un secolo, non è stato dimostrato alcun legame causale».

Italia, 8 settembre 2003. Il Consiglio Superiore di Sanità, interrogato dall’allora ministro della Salute Girolamo Sirchia circa gli effetti collaterali della canapa, rilascia un sintetico documento, dove si dice che «l’uso della cannabis è gravato da pesanti effetti collaterali quali dipendenza, possibile progressione all’uso di altre droghe quali cocaina e oppiodi, riduzione delle capacità cognitive, di memoria e psicomotorie, disturbi psichiatrici quali schizofrenia, depressione e ansietà». Su questa base, il Consiglio ritiene «che la cannabis non debba considerarsi una droga leggera». Allegata al parere, una relazione scientifica (consistente in uno scritto di due cartelle) che si avvale nel titolo di un linguaggio poco rigoroso sul piano scientifico ma di sicuro effetto mediatico-politico: «La Cannabis non è una droga leggera»; in bibliografia si riportano sei (sic!) articoli [2].

L’orizzonte della proibizione
Per simbolica coincidenza, le (opposte) decisioni politiche dei due governi sono prese a poche ore di distanza. Il 12 novembre 2003, la Camera dei Lord approva la declassificazione della canapa nella tabella C, col risultato di una sostanziale depenalizzazione dell’uso personale, seppur con qualche eccezione. Il 13 novembre 2003, il nostro Consiglio dei Ministri dà il via alla presentazione in Parlamento di un disegno di legge che colloca droghe leggere e pesanti in un’unica tabella, col risultato di un forte inasprimento punitivo sull’uso e sui reati connessi alla canapa.

Per fornire altri elementi di giudizio in merito a questa sconcertante divergenza scientifica e politica fra due paesi così vicini, occorre guardare al contesto internazionale. Tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila in Europa (ma non solo) si assiste a un fiorire di rapporti e revisioni della letteratura scientifica sulla canapa, dietro la spinta politica a distinguere fra differenti droghe e ad alleggerire la pressione penale almeno su quelle giudicate meno rischiose, come la canapa.

Escono così il rapporto Roques in Francia (1999) [3]; quello già citato dello ACMD in Gran Bretagna; il rapporto Nolin in Canada (2002) [4], forse il più approfondito e innovativo sul piano teorico; il Cannabis 2002 Report [5] redatto da un panel internazionale di studiosi, su iniziativa congiunta di Belgio, Francia, Germania, Svizzera e Olanda. Queste revisioni sostanzialmente concordano nel ritenere che la canapa non sia un rischio maggiore per la salute pubblica. Il rapporto Roques, l’unico che passa in rassegna la pericolosità di tutte le droghe, legali e illegali, e non la sola canapa, così sintetizza la classificazione in tre gruppi secondo un ordine decrescente di rischio: «Il primo comprende l’eroina e gli oppiodi, la cocaina e l’alcol; il secondo, gli psicostimolanti, gli allucinogeni, il tabacco, le benzodiazepine; più indietro, la canapa».

Il trend europeo di alleggerimento penale va però incontro a pesanti resistenze politiche a livello internazionale. Basti citare il grave incidente diplomatico scoppiato fra il Regno Unito e lo INCB (International Narcotics Control Board), l’organismo deputato al controllo delle convenzioni ONU sulle droghe illecite.

Alla vigilia dell’importante appuntamento delle Nazioni Unite sulle droghe della primavera del 2003, l’allora presidente dell’INCB, il nigeriano Philip O. Emafo, attaccava i paesi «che favoriscono la decriminalizzazione dei reati di droga», accusandoli di condurre «una crociata» per la legalizzazione. Il governo britannico rispondeva duramente, invitando polemicamente Emafo a documentarsi su Internet circa il pronunciamento scientifico dell’organismo di consulenza britannico (1).

Ancora, all’apertura dell’assise internazionale suddetta, il direttore
dell’UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime), l’italiano
Antonio Costa, poneva sul tappeto il dissidio politico (che opponeva e oppone gli Stati Uniti alla gran parte dei paesi europei) e prendeva partito in maniera decisa, ammonendo contro «la percezione distorta della canapa come droga leggera»: un calcio risoluto alla “palla” politica, destinata a rimbalzare sul tavolo del Consiglio Superiore di Sanità, come si è visto [7].

A partire da questa storia recente, quali insegnamenti trarre e quali nodi illuminare circa il rapporto fra scienza e politica?

Dati inconsistenti e propaganda pesante
In primo luogo, si nota che la ricerca sulla canapa si intreccia
indissolubilmente, con la questione dell’accettabilità o meno delle cosiddette lenient policies, ossia dell’alleggerimento della proibizione. Ciò risulta vero anche guardando più indietro nel tempo, come accenneremo tra poco.

Questo legame è suscettibile di trasformarsi in un rapporto vizioso, a doppio binario. Da un lato, alcuni studiosi mostrano di non tenere nella giusta considerazione la loro qualifica: la differenza fra un rapporto, come quello dello AMCD, basato sulla revisione di migliaia di studi, e il frettoloso parere del Consiglio Superiore di Sanità, che invia al ministro la recensione di sei ricerche, parla da sé; ma il grande pubblico non è in grado di distinguere e spesso non lo è neppure la stampa di larga informazione. Dall’altro, alcuni politici hanno buon gioco a presentare e interpretare nella maniera a loro più conveniente le ricerche, specie quando queste mancano di rigore.
Illuminante il caso del rapporto sui consumi di droga in Svezia, pubblicato dall’UNODC nell’autunno del 2006.

Si legge nel documento: «Nel caso della Svezia, colpisce l’evidente associazione tra una politica sulla droga restrittiva e i bassi livelli di consumo». E ancora: «La politica sulle droghe svedese è estremamente efficace nel prevenire il consumo di droga». Dunque, si suggerisce esplicitamente un rapporto di causa-effetto tra le politiche di quel paese, tradizionalmente molto repressive, e il contenimento dei consumi. Ciò a supporto della tesi, cara al direttore Antonio Costa, e ripetuta anche in occasione della presentazione del World Drug Report 2006, secondo cui «ogni paese ha il problema droga che si merita». In altre parole, i paesi che scelgono le lenient policies avranno un aumento dei consumi: questa è la lezione.

Ma la lettura del rapporto evidenzia una serie di importanti scorrettezze metodologiche, come sottolinea il sociologo Peter Cohen
[8]. Intanto, il rapporto è estremamente vago nel definire i “livelli di
consumo” (di canapa), poiché variano le classi di età prese in considerazione. Per non dire che, al solito, i termini “uso” e “abuso” sono impiegati in maniera intercambiabile, aggiungendo confusione a confusione. Alla fine, il giudizio positivo sui bassi livelli di consumo si fonda sul raffronto dei dati svedesi con la media europea, così come riportata dall’Osservatorio Europeo sulle Droghe e le Tossicodipendenze (OEDT, o nella dizione inglese European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction, EMCDDA) di Lisbona. La Svezia, cioè, avrebbe “bassi” consumi di canapa (“causati” dalle sue politiche restrittive) in quanto al di sotto della media europea. Peccato che la Svezia non sia il solo paese al di sotto della media
europea. Se si studiano le tabelle dell’EMCDDA relative al consumo di canapa nell’ultimo anno nella fascia d’età 15-34 anni, molti altri paesi, tra cui l’Olanda, presentano livelli più bassi. Anzi, i Paesi
Bassi, su molti indicatori di consumo di droghe e alcol, e in particolare sul numero di consumatori “pesanti”, producono numeri che sono ben al di sotto della media europea e molto al di sotto degli Stati Uniti. Dunque – commenta Cohen – in teoria l’agenzia ONU sulle droghe potrebbe scrivere un rapporto intitolato «Il successo della politica sulle droghe in Olanda»; oppure «La catastrofe della politica statunitense». E conclude ironicamente: «Invitiamo lo UNODC a redigere quanto prima questi rapporti».

Sin qui, siamo nell’ambito del rapporto strumentale fra ricerca
e politica, sotto l’aspetto delle risposte, più o meno rigorose, della scienza ai quesiti posti e del loro utilizzo a fine di propaganda. Ma che dire delle domande rivolte agli studiosi o che gli studiosi stessi si pongono?

Il consumo come patologia
Se torniamo ai pareri richiesti ai rispettivi organi consultivi in Gran Bretagna e in Italia, notiamo che le domande sono le stesse: quali sono i rischi farmacologici inerenti alla sostanza? Domanda per certi versi paradossale: come se la canapa fosse un nuovo farmaco da immettere o meno sul mercato, e non la sostanza psicoattiva più diffusa nel mondo occidentale dopo l’alcol, ormai da diverse generazioni.

Per citare qualche numero e un po’ di storia: negli anni Settanta, quando il Congresso americano insediò una commissione nazionale per studiare la marijuana (nota col nome di Commissione Shafer) ventiquattro milioni di americani avevano già fatto uso di marijuana [9]. La Commissione Shafer si preoccupò di esaminare se la marijuana provocasse follia, promiscuità sessuale, sindrome
amotivazionale e se aprisse la strada ad altre droghe. Due anni dopo, nel 1972, concluse i suoi lavori senza trovare evidenze convincenti in tal senso. Trenta anni più tardi, quando i cittadini britannici fra i 20 e i 24 anni che hanno provato la marijuana
assommano al 52 per cento dell’intera popolazione, le questioni trattate nel rapporto dello AMCD sono sostanzialmente le stesse. È da notare che in questo arco di tempo gran parte delle ricerche
sono state effettuate in laboratorio: per verificare l’eventuale insorgenza di dipendenza dalla marijuana, i ricercatori hanno somministrato forti dosi di THC a persone, ratti, topi, scimmie, tutti
i giorni del mese. Altri scienziati hanno esposto le cellule umane al THC o al fumo della marijuana, cercando poi eventuali anomalie cellulari al microscopio. Eppure, è legittimo obiettare, data la consistente diffusione dei consumi e da così lungo tempo, dovremmo ormai avere dei riscontri sul piano clinico ed epidemiologico. Per esempio, se la canapa sviluppasse schizofrenia, si sarebbe dovuto registrare un aumento della malattia nella popolazione giovanile. E forse l’allarme già sarebbe rimbalzato nei gabinetti dei medici di base. Il che non è avvenuto.

Dunque, perché continuare a indagare le caratteristiche farmacologiche della canapa e non invece il come (in quale quantità, circostanze, periodo della vita, circostanze ambientali) la sostanza è usata? Perché si continua a parlare di rischio della sostanza, in assoluto, astraendo dall’intensità, dalla frequenza, dalle occasioni in cui si sceglie di consumare? Soltanto il rapporto Nolin mette i piedi nel piatto, gettando luce sugli angoli bui del sapere sulle droghe. In primo luogo, il documento denuncia le ambiguità, se non il vero e proprio bias, nelle definizioni comunemente usate. Per esempio, è respinto il termine “abuso” di droga, poiché vago e fonte di equivoci. È vero che le convenzioni internazionali parlano di “abuso” per qualsiasi forma di consumo di sostanze illegali se non dietro prescrizione medica o a scopi scientifici. In questa luce, uso e abuso coincidono, ovviamente. Ma si tratta di una definizione legale conseguente alla proibizione, che non dovrebbe trovar corso nel linguaggio della scienza. Perciò, il rapporto Nolin cerca di individuare
e di definire i differenti modelli di consumo, distinguendo fra “uso”, “uso a rischio”, “uso eccessivo”. Il rivolgimento teorico è radicale: il pericolo è valutato non più solo in relazione alla sostanza, quanto anche al pattern di assunzione, prendendo in considerazione più variabili: quantità, frequenza, circostanze del consumo.

A fronte di questo sforzo di rinnovamento delle categorie di lettura del consumo, il rapporto canadese denuncia il vuoto di conoscenza sugli usi (al plurale) della canapa. I dati sono di tipo epidemiologico: quanti provano la sostanza, quanti continuano a usarla, l’età in cui la gran parte smette di consumare. Ma mancano studi etnografici che ci permettano di sapere come la canapa è consumata. Queste lacune hanno a che fare con le (mancate) domande della politica. Detto altrimenti: la ricerca si orienta a sondare i terreni “politicamente corretti”. Il consumo di una sostanza illegale è considerato una “patologia”. Dunque, si studia il potenziale patologico della canapa e
l’esposizione della popolazione all’agente patogeno, la sostanza appunto. In tale visione, è importante sapere l’età d’iniziazione, per cercare di prevenire, ossia evitare, il primo contatto con la droga; così come è importante conoscere la classe d’età in cui la prevalenza dei consumi crolla, poiché corrisponde al cessato pericolo. Il modello di rilevazione epidemiologica (uso life time, almeno una volta nell’ultimo anno, almeno una volta nell’ultimo mese) segue la progressione dell’infezione: l’ottica patologica fa sì che il consumo continuativo sia considerato di per sé problematico, e definito come dipendente. E’ vero che il tasso di continuazione nell’uso di droghe
(canapa compresa) è molto basso; il che significa che la stragrande maggioranza di coloro che si avvicinano alla canapa sono destinati a rimanere consumatori sperimentali o occasionali. Tuttavia, la lente patologica focalizza quella parte, per quanto piccola, di consumatori che evolve verso il consumo regolare (e la dipendenza), ossia verso la malattia “conclamata” (2).

Anche le politiche pubbliche di prevenzione si allineano al modello “malattia”, in coerenza col dettato proibizionista: prevenire significa far sì che il maggior numero possibile di soggetti evitino di provare la droga, oppure interrompano il prima possibile il contatto con la sostanza, per impedire l’escalation verso la dipendenza.

Tanto basta a spiegare lo scarso interesse a studiare come i consumatori gestiscono il rapporto con la sostanza. L’assunto patologico spinge semmai a studiare come i consumatori (i dipendenti) non gestiscono il loro rapporto con la sostanza. Quanto ai consumatori occasionali, si suppone che siano destinati a diventare dipendenti qualora non interrompano precocemente il consumo. Anche per questa via, sapere il come e il perché questi ultimi consumino in maniera moderata è di scarso interesse. Come recita il rapporto Nolin, «quando pensiamo alla droga pensiamo alla dipendenza, in quanto una droga è una sostanza capace di indurre dipendenza». È una illustrazione semplice e acuta del modello “malattia”, su cui sembrano largamente convergere sia il mondo della ricerca che quello dei sostenitori della proibizione. Quel modello infatti sostiene l’idea della sostanziale passività e vulnerabilità dell’organismo umano all’azione nociva e additiva delle sostanze psicoattive. E visto che «la droga è tale poiché capace di indurre dipendenza», la soluzione politica coerente consiste nella sua interdizione. Il che ci permette di capire non solo perché si continui a studiare le caratteristiche della sostanza (invece delle modalità con cui è usata), ma anche l’accanimento con cui si ripercorrono quegli stessi sentieri della ricerca.

L’accanimento investigativo
In tale inesauribile pervicacia, è difficile scindere le responsabilità politiche da quelle di buona parte degli scienziati. Lynn Zimmer e John Morgan, all’inizio del loro fondamentale lavoro di revisione della letteratura scientifica sulla marijuana, illustrano come il rifiuto (politico) del rapporto Shafer abbia dato il via agli indefessi tentativi di rovesciare quel pronunciamento [10]. Il NIDA (National Institute on Drug Abuse), l’organismo governativo per la ricerca, ha finanziato tutti i possibili studi tesi a dimostrare l’elevata dannosità della canapa. Agli inizi degli anni Ottanta, il budget deputato a questo scopo è aumentato in maniera impressionante. Se nel 1982 il NIDA stanziava circa tre milioni di dollari per la marijuana, nel 1987 ne
spendeva 15, nel 1990 26 milioni.

Ancora una volta, fa riflettere l’oggetto, per non dire la qualità, di larga parte di questi studi, concentrati sulle ipotesi di tossicità biologica formulate all’inizio degli anni Settanta. Negli studi sugli animali, i ricercatori, iniettando il THC direttamente nelle vene, nelle cavità addominali, o nel cervello degli animali, sono stati in grado di produrre una varietà di modificazioni biologiche: tuttavia, nessuno di questi danni, dall’infertilità, ai danni cerebrali, alla deficienza immunitaria, è mai stato riscontrato sulle persone che usano marijuana. È legittimo interrogarsi sul significato di una tale messe di studi, così sganciati dalle reali esigenze della salute pubblica e di quella individuale dei consumatori; e per certi versi così fuorvianti, visto che l’esecuzione di test multipli accresce la probabilità che alcuni risultati positivi occorrano per probabilità statistica, come denunciano gli stessi Zimmer e Morgan. Il monito lanciato dalla Commissione Shafer nel 1972, «La scienza è diventata l’arma di una battaglia propagandistica», si è rivelato profetico ed è ora più vero di
prima, anche in virtù dei progressi tecnologici. Per esempio, le scoperte derivanti dagli studi sugli animali e sulle cellule sono citate e divulgate dal NIDA come prove di danni biologici causati dalla marijuana anche quando tali effetti non sono stati registrati sugli esseri umani. Al contrario, gli studi che non dimostrano alcun effetto, o un effetto positivo, sono del tutto ignorati.

Dal punto di vista degli scienziati, l’acquiescenza a ripercorrere gli stessi sentieri non deriva solo dal bisogno di accedere ai finanziamenti disponibili. È l’orizzonte culturale disegnato dalla proibizione a legittimare la scelta. Come spiega con acutezza Norman Zinberg, non è in discussione la “verità” e l’obiettività della scienza o la buona fede degli scienziati; tuttavia «all’interno di una certa cornice di valori, nella prospettiva cioè che qualsiasi droga illecita rappresenti un male tale da legittimare qualsiasi sforzo per dimostrare questo assunto, la ricerca della verità tende a diventare deduttiva invece che induttiva» [11]. In altre parole: la cultura proibizionista restringe la scelta delle ipotesi di partenza che ogni ricercatore ha di fronte a sé prima di iniziare la sua ricerca. Il che però rischia di minare il significato stesso di “ricerca”, nella dimensione della scoperta. Infatti, procedere da ipotesi che non assecondano, o apertamente contrastano, l’assunto secondo cui “le droghe sono illecite perché straordinariamente dannose e/o moralmente inaccettabili” rischia di urtare i “valori” dominanti, sostenuti dalla proibizione stessa. Ciò perché la proibizione non è solo, né tanto, un particolare sistema di controllo delle droghe a seguito di un’opzione politica, legata come tutte le opzioni politiche a particolari momenti storici e soggetta perciò a verifiche, revisioni, evoluzioni. È soprattutto un’ideologia “antidroga”, che, come tutte le ideologie, assume contorni totalizzanti. Perciò ipotesi operative o risultati di ricerche che contrastino con l’assunto di cui sopra rischiano di essere percepiti come “a favore” del consumo di droga. Per non dire che difficilmente troveranno i finanziamenti necessari.

Il dogma e l’eresia
È lo stesso problema sollevato da Peter Cohen, con linguaggio ben più tagliente: saranno realizzate solo le ricerche funzionali al “dogma” della proibizione, tese a dimostrare che l’uso di droga porta problemi; che porta al crimine; che conduce alla prostituzione. «Naturalmente», scrive Cohen, «tutto questo non è vero per la stragrande maggioranza dei consumatori. Tuttavia, non è lecito scoprire come le persone integrino i loro consumi nelle attività quotidiane, senza problemi». In ultima analisi è la “Chiesa della proibizione” a selezionare le domande (sacre) da porre alla scienza, scartando quelle in odore di eresia (3).

Negli anni Settanta e Ottanta, Norman Zinberg scriveva le sue preoccupate considerazioni sui condizionamenti della ricerca a partire dalla propria esperienza. A lui si devono le prime importanti ricerche “eretiche” sull’uso controllato di droghe, di eroina in particolare. A distanza di oltre trent’anni, gli studi che cercano di illuminare la “normalità”, invece che la patologia, dei consumi si contano ancora sulle dita delle mani.

L’ideologia “antidroga” contiene un importante corollario, già accennato. Poiché il problema-droga sta nella dannosità della droga stessa, esso si elimina (o almeno si riduce), eliminando (riducendo) la circolazione di droga, tramite la proibizione, appunto. Da qui la già citata asserzione di Costa: «Ogni paese ha il problema droga che si merita». In altri termini, i pilastri della proibizione come dogma, sono da un lato la fede “farmacologica”; dall’altro, la fede nel controllo formale/legale.

Se è interdetto lo studio sui consumatori non problematici di droghe, altrettanto lo è quello circa i fattori di influenza sui consumi che non si identificano nel controllo legale: quest’ultimo ne verrebbe infatti indebolito. E’ quanto sottolinea Peter Cohen nel commento al citato rapporto UNODC sulla Svezia. Tralasciando il dibattito sulla solidità dei dati su cui si basa il rapporto, si può nondimeno convenire sui bassi livelli di consumo di alcol e droghe in quel paese. Ma non c’è evidenza alcuna che ciò sia effetto della legge repressiva. Può darsi invece che la politica penale svedese, così come i bassi consumi di sostanze intossicanti, siano ambedue espressione della cultura della temperanza, che ha profonde radici in Svezia. Per ragioni culturali del tutto diverse, i greci, per esempio, produrranno anch’essi basse percentuali d’uso di droghe; lo stesso dicasi per gli olandesi, ma per motivi socioculturali ancora differenti.

Queste critiche, non solo evidenziano le pecche metodologiche su cui si fondano molti giudizi e speculazioni politiche (presentare semplici associazioni come rapporto di causa-effetto è uno degli arbitri più diffusi nel campo delle droghe); più importante, fanno intravedere nuovi possibili orizzonti alla ricerca sociale. Conclude pessimisticamente il sociologo olandese: «Per l’UNODC, anche il solo contemplare questo concetto di costruzione culturale sarebbe un disastro, perché aprirebbe la strada a un’analisi scientifica della situazione […] e questo concetto invaliderebbe del tutto la convinzione che i paesi siano destinati ad avere il problema droga che si meritano se falliscono nell’ortodossia proibizionista».

Alle radici del “problema droga”
Ce n’è a sufficienza per spiegare tanto fiorire di ricerca “deduttiva” a fronte di tanta povertà di ricerca “induttiva”, e perché le domande alla scienza si ripetano quasi ossessivamente. Per citare ancora un fatto recente. In Gran Bretagna, dopo la decisione governativa di declassificare la canapa, approvata dal Parlamento sul finire del 2003, ed entrata in vigore nel 2004, già agli inizi del 2005, il governo britannico interpellava di nuovo il proprio organismo di consulenza scientifico circa la rischiosità della sostanza (in particolare come causa di schizofrenia) e la correttezza della recente classificazione. Verso la fine dello stesso anno, l’ACMD riconfermava la declassificazione, ripercorrendo all’incirca gli stessi argomenti (i dati che apparentemente depongono per un’azione psicopatogena della sostanza non possono essere automaticamente interpretati come un rapporto di causa-effetto, ecc.) (4). C’è da supporre che non sarà l’ultima volta; specie se si considera la crescente crisi di credibilità della politica, che, in un circolo vizioso, tende sempre più a delegare la responsabilità di scelte che le competono, a ulteriore danno del proprio prestigio.

Eppure molti altri interrogativi potrebbero essere sollevati qualora fosse legittimo ipotizzare un diverso modello di interpretazione dei consumi e un cambiamento nelle politiche pubbliche. Per citarne alcuni: quali sono i fattori che aiutano i consumatori controllati a rimanere tali? Se è vero, come le ricerche inaugurate da Zinberg indicano, che i rituali d’uso e le prescrizioni sociali (ossia i controlli informali) hanno un ruolo moderatore, come agiscono questi controlli nello specifico delle differenti droghe e delle diverse culture e subculture del consumo? Quali politiche pubbliche possono favorire tali controlli informali? Come i controlli legali/formali (la proibizione) influiscono su quelli informali? E ancora: come può essere concettualizzato il problema-droga? Nel numero dei consumatori, quale che sia il modello di consumo? Nel numero dei consumatori “problematici”? Nel numero dei reati commessi dai consumatori e/o dai consumatori “problematici”? Nello stato di povertà e di marginalità sociale in cui vivono molti consumatori? È la droga la causa dei problemi droga-correlati o sono lo stigma e l’ostracismo sociale, amplificati dalla proibizione, a strutturare stili di vita marginali e stili di consumo intensivo? Per dirla col famoso psicologo americano William Ryan: «Che cos’è un problema sociale? Poiché qualsiasi problema in cui le persone sono coinvolte è sociale, perché riserviamo questa etichetta per alcuni problemi e non per altri?» [12]. Forse questa è la domanda chiave, sommamente eretica, da riservare alla politica, più che alla scienza.

NOTE

(1) Cfr. [6]. L’episodio avveniva agli inizi del 2003, prima della Ungass Midterm Review dell’aprile successivo, ossia della riunione della CND (Commission on Drugs), con la presenza dei ministri degli Stati membri delle Nazioni Unite, chiamata a una prima verifica delle strategie adottate alla Sessione Speciale sulle droghe dell’Assemblea Generale Onu di New York, del giugno 1998.

(2) Il rapporto 2006 dell’Osservatorio Europeo sulle Droghe e le Tossicodipendenze riporta questi dati per la canapa: si calcola che circa 65 milioni di adulti europei abbiano provato la sostanza, pari a circa il 20 per cento della popolazione. Il consumo nell’ultimo anno riguarda circa 22,5 milioni di persone. Il consumo nell’ultimo mese, che «rappresenta con maggiore fedeltà il consumo regolare», interessa 12 milioni di soggetti, pari a circa il 4 per cento degli adulti europei. Per avere un ordine di paragone, nel 2004 negli Stati Uniti la prevalenza lifetime si attestava sul 40,2 per cento degli adulti, circa il doppio della media europea (OEDT, Relazione annuale 2006: evoluzione del fenomeno della droga in Europa), http://www.emcdda.eu.int/).

(3) COHEN P., «Galileo non abita qui», in Fuoriluogo, giugno 2006; cfr. anche COHEN P., «La caduta del dogma», in CORLEONE F. e ZUFFA G. (a cura di), La guerra infinita, Edizioni Menabò, Ortona 2005.

(5) The Advisory Council’s Report- Further consideration of the classification of cannabis under the Misuse of Drugs Act 1971 (2005).

BIBLIOGRAFIA

[1] ADVISORY COUNCIL ON THE MISUSE OF DRUGS, The classification
of cannabis under the Misuse of Drugs Act 1971
, March 2002.

[2] CONSIGLIO SUPERIORE DI SANITÀ, Sessione XLV, seduta 8 settembre 2003.

[3] ROQUES B., La dangerosité des drogues, Editions Odile Jacob,
Paris 1999.

[4] Report of the Senate Special Committee on Illegal Drugs, Cannabis: our position for a Canadian Public Policy, Chair Pierre Claude Nolin, September 2002.

[5] Technical Report of the International Scientific Conference, Cannabis 2002 Report, Brussels, February 2002.

[6] ZUFFA G., «Rapporto INCB, il Regno Unito contrattacca», in Fuoriluogo (supplemento mensile del Manifesto), aprile 2003(http://www.fuoriluogo.it/).

[7] UNODC Report, Sweden’s succesful drug policy: a review of the evidence, September 2006.

[8] COHEN P., «Costa vola in soccorso dei fondamentalisti», in Fuoriluogo, ottobre 2006.

[9] National Commission on Marijuana and Drug Abuse, Marijuana: a signal of misunderstanding, US Government Printing Office, 1972.

[10] ZIMMER L.,MORGAN J., Marijuana. I miti e i fatti, Vallecchi, Firenze 2005 (edizione originale: Marijuana Myths, Marijuana Facts, The Lindesmith Center, New York, 1997).

[11] ZINBERG N.E., Drug, Set, and Setting. The basis for controlled intoxicant use, Yale University Press, New Haven and London 1984.

[12] RYAN W., Blaming the victim, Pantheon Books, New York, 1971.

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