Una ricetta per la democrazia

La democrazia non è con un concetto astratto. E’ qualcosa di tangibile sin dai suoi primi istanti di vita. Non si ottiene solo fornendo aiuti alimentari o cancellando il debito dei paesi in via di sviluppo ma è un processo delicato in cui gioca un ruolo chiave la scelta della non violenza. E’ spiegata così la transizione politica da un sistema dittatoriale alla democrazia nel rapporto “Come si Conquista la Libertà: dalla Resistenza Civica alla Democrazia” presentato lo scorso 2 dicembre a Roma dall’organizzazione non governativa Freedom House. Uno studio messo a punto con il sostegno dell’International Center of Nonviolent Conflit che, sulla base di ricerche condotte per un lasso di tempo di oltre 30 anni, muove anche una critica alle scelte politiche dei leader internazionali. La storia è costellata di successi della resistenza civica non violenta. Quasi ovunque marce, manifestazioni, scioperi, boicottaggi si sono dimostrati efficaci nel minare alle fondamenta la dittatura e favorire la nascita di stati civili. E’ stato così per le Filippine nel 1986, per il Cile e la Polonia nel 1988; per l’Ungheria, la Germania dell’est e la Cecoslovacchia nel 1989. E ancora per il Sudafrica nel 1994, la Serbia e il Perù nel 2000 e la Georgia nel 2003. “Dal rapporto è emerso che quando in un paese c’è un movimento civico non violento, la possibilità di far crollare un regime e far nascere una democrazia è del 60 per cento in più”, spiega Matteo Mecacci, rappresentante alle Nazioni Unite del Partito Radicale Transnazionale. “Dove c’è intervento militare esterno, guerra civile, colpo di stato, quindi violenza, la possibilità è solo del 20 per cento”. Il rapporto ha infatti rilevato che la forza della resistenza civica è stata un fattore chiave in 50 dei 67 paesi in transizione presi in analisi. Mentre nessuno di questi 50 era considerato paese “libero” prima della transizione, oggi 32 sono considerati “liberi”, 14 “parzialmente liberi” e solo 4 “non liberi”. Non altrettanto si può dire, invece, delle transizioni “dall’alto verso il basso” lanciate e dirette dalle élite al potere, che hanno avuto effetti meno positivi. In una scala da 1 a 7 le transizioni guidate dall’alto verso il basso hanno migliorato la situazione nella media dei dati relativi alla libertà di 1,1 punti, contro i 2,7 punti delle transizioni con forte partecipazione di movimenti di resistenza civile. Inoltre, tra i fattori che contribuiscono all’aumento della libertà emerge anche la compattezza delle coalizioni civiche. In 32 dei 67 paesi analizzati erano molto attivi forti e ampi fronti popolari o coalizioni civiche: se prima della transizione nessuno di essi era libero, 17 erano “parzialmente liberi” e 15 “non liberi”, oggi sono 24 quelli liberi, 8 i parzialmente liberi e nessuno “non libero”. Infine, dice il rapporto, le prospettive di libertà sono il triplo quando l’opposizione non usa metodi violenti. Su 47 paesi in cui l’uso della violenza da parte dell’opposizione è stato assente o quasi nullo, 31 sono oggi paesi “liberi”, 11 “parzialmente liberi” e solo 5 “non liberi”. Al contrario, nei paesi in cui l’opposizione ha impiegato la violenza, rispetto a prima della transizione i risultati sono stati minori: solo 4 i paesi “liberi”, 12 quelli “parzialmente liberi” e 4 i “non liberi”. “Il rapporto contiene una serie di raccomandazioni alla classe politica”, continua Mecacci. “Quando le forze dall’interno non ce la fanno, è necessario l’intervento dall’esterno, ma non può essere solo militare. E’ importante capire se l’assistenza internazionale appoggia i gruppi democratici. Gli Usa già lo fanno, l’Italia invece è molto indietro e preferisce investire nel vecchio settore, quello dei generi alimentari, dei medicinali e degli aiuti per scuole e ospedali”. Molto spesso, infatti, gli aiuti allo sviluppo non sono indirizzati a progetti che favoriscono la democratizzazione, il controllo sulla corruzione del governo, il monitoraggio delle elezioni o la partecipazione politica delle donne. E a volte finiscono addirittura nelle tasche dei funzionari locali, rafforzando lo status quo dei regimi. “Invece di cercare di esportare la democrazia, se ne deve favorire il nascere dall’interno, sostenendo anche economicamente la resistenza non violenta che dal mondo arabo al sud est asiatico, alla Cina e all’Africa, si sta diffondendo”, conclude Mecacci. “E’ necessario incoraggiare la formazione di ampie coalizioni e allargare lo spazio dell’azione non violenta attraverso sanzioni mirate alle dittature da parte dei governi e delle organizzazioni internazionali”.

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