Una rivoluzione a metà

I cibi che oggi ritroviamo sulle nostre tavole sono in gran parte prodotti dell’agricoltura convenzionale, cioè con quell’insieme di metodi, tecniche e attrezzature sviluppati nel mondo occidentale a partire dagli anni Venti e Trenta. Fino ad allora, infatti, l’agricoltura, in assenza di conoscenze biologiche, chimiche e biochimiche ben precise sullo sviluppo delle piante e degli animali e dei loro parassiti, si basava sull’uso di metodi e sostanze che empiricamente avevano dato risultati positivi. Per esempio, l’uso di escrementi degli animali domestici sparsi sul terreno coltivato, che fin da tempo immemorabile, si era constatato aumentare la produttività di varie colture vegetali. L’avvento di nuove tecniche in grado di aumentare la produttività ha dunque rappresentato una tappa importante nella storia dell’umanità. Eppure, proprio questi metodi suscitano oggi la diffidenza di molti consumatori, allarmati dagli effetti di prodotti chimici e tecniche agricole intensive sulla salute umana e sull’ambiente. E spesso anche nostalgici dei “sapori di una volta”. Ma questi timori e questi rimpianti sono giustificati? Galileo lo ha chiesto ad Alessandro Bozzini, consulente della Fao, per la quale è stato direttore del Servizio di Produzione vegetale, dei Pascoli, della Produzione delle Sementi e dell’Agrometeorologia.

Professor Bozzini, quando nasce l’agricoltura moderna?

“Generalmente si fa partire a cavallo fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi decenni del secolo scorso, grazie ai progressi ottenuti nella biologia applicata alle specie agrarie, allo sviluppo della chimica (sia organica che inorganica) e della produzione e uso di energia, con l’introduzione della meccanica nella lavorazione dei terreni, nella coltivazione, raccolta e primo processamento dei prodotti agricoli. L’ultima tappa di questa evoluzione è rappresentata dall’avvento delle biotecnologie e, in particolare, dell’ingegneria genetica. All’inizio la rivoluzione si è fondata su due basi, di natura scientifica e tecnica. Da un lato, le tecnologie di miglioramento genetico di piante e animali domestici portarono alla selezione di varietà e razze che permisero (nei vari ambienti di allevamento) di ottenere produzioni elevate di alimenti e prodotti utili in genere. Dall’altro, le aumentate conoscenze sulla fisiologia di piante e animali e dei loro parassiti naturali permisero di ottimizzare i livelli produttivi degli alimenti (vegetali e animali) e di perfezionare i mezzi di lotta e di controllo dei parassiti. A partire dall’inizio del Novecento, poi, facendo ricorso a incroci e selezioni, si è cercato di limitare la biodiversità presente nelle popolazioni di partenza, spingendo la selezione a favore di razze e individui capaci di prestazioni superiori alla norma, ai quali fornire alimenti (concimi chimici di sintesi per le piante e alimenti più completi agli animali) ottimali per questo scopo. L’estremo limite, per esempio, si raggiunge nelle piante coltivate nelle colture senza suolo o idroponiche: ai vegetali allevati su un substrato inerte (pomice, sabbia silicea ecc.) viene fornita una soluzione che contiene tutte le sostanze chimiche necessarie per lo sviluppo. Al contempo, per il controllo dei vari tipi di parassiti, vengono forniti composti di sintesi (insetticidi, acaricidi, nematocidi, erbicidi, fungicidi e battericidi) specifici, in modo da eliminare l’agente del danno e ottenere prodotti integri”.

Questi prodotti possono però contenere residui delle sostanze pesticide impiegate, alcune delle quali dannose anche per l’uomo…

“In effetti, è fondamentale un impiego corretto, sia nelle quantità che nella tempistica di intervento, delle tecnologie “convenzionali” da parte degli operatori, pena una serie di inconvenienti anche gravi per l’ambiente e la salute. Analogamente, negli animali domestici l’impiego di prodotti di sintesi (per esempio, gli antibiotici) in modo sistematico, a scopo preventivo, per il controllo di eventuali infezioni epidemiche, può portare a presenza di tali prodotti in carne, latte e uova, in varie quantità, con effetti non certo positivi”.

E questo non è certo un risultato desiderabile per i consumatori…

“Come tutte le tecnologie, anche quelle impiegate dall’agricoltura moderna, se mal utilizzate, comportano dei rischi. Bisogna però precisare che, mentre si punta spesso il dito contro l’eventuale presenza di residui chimici negli alimenti, non si tiene in debito conto la sanità microbiologica dei prodotti, che, molto spesso, è causa di inconvenienti ancora di gran lunga più dannosi e deleteri per l’uomo e gli animali domestici”.

Sempre più persone però si rivolgono verso prodotti “alternativi”…

“In effetti, accanto all’agricoltura “convenzionale” si è da qualche tempo affiancata, o meglio contrapposta, la cosiddetta agricoltura “biologica” (termine improprio in quanto tutti i prodotti alimentari sono di origine biologica, qualsiasi tecnica venga adottata) o “naturale”, o “biodinamica” oppure ancora “organica” (come viene chiamata nel mondo anglosassone). La particolarità di questo tipo di produzione è fondamentalmente nell’esclusione (per auto-esclusione o per regolamentazione accettata) dell’uso di sostanze chimiche di sintesi, come fertilizzanti, insetticidi, erbicidi e pesticidi in genere, sostituiti da composti di origine “naturale”, quali letame e compost (come fertilizzanti), estratti vegetali e polveri inorganiche varie (come pesticidi), lavorazioni meccaniche o comunque fisiche (per il controllo delle malerbe). Questi metodi, così come l’uso di popolazioni di piante e animali domestici caratterizzati da una relativamente più elevata “biodiversità”, possono però, in un certo senso, riportare l’agricoltura indietro di cent’anni, garantendo in genere produzioni decisamente inferiori a quelle ottenibili oggi con l’agricoltura e l’allevamento “convenzionali” moderni. Ciò, quasi sempre, implica una minore resa e quindi un maggior costo del prodotto finale. In un ettaro coltivato a frumento tenero, per esempio, con le tecnologie “convenzionali” possono essere raggiunte produzioni di 70-80 quintali di granella per ettaro; con le tecnologie “biologiche”, nelle stesse condizioni di terreno e ambiente, le produzioni risulteranno, con ogni probabilità, quasi dimezzate. Credo che tutti convengano che non si debbano creare privilegiati che si nutrono di cibi “più sicuri” e altri che debbano nutrirsi con altri “meno sicuri”, solo perché sono meno abbienti. La disponibilità e la sicurezza alimentare crediamo sia un diritto fondamentale per tutti gli uomini”.

L’agricoltura convenzionale ha certo una resa maggiore, spesso però si ha l’impressione che si punti più alla quantità e all’aspetto e che al sapore. Siamo condannati a mangiare cibi belli ma insipidi?

“C’è da dire che oggi la domanda dei consumatori si concentra sull’aspetto visivo dei prodotti, anche perché può essere fortemente influenzata dalla propaganda dei media, TV in particolare, che si basa soprattutto sull’immagine. Questa inoltre, ha generalmente effetti più marcati su particolari segmenti della popolazione (giovani, persone meno acculturate, anziani). Un fenomeno che forse potrebbe essere arginato se nelle scuole e negli esercizi commerciali si attuasse una corretta e accurata informazione sugli alimenti”.

Ma perché la frutta è quasi sempre acerba o la carne “piena di acqua”?

“Ormai molti prodotti, quali frutta e verdura, vengono venduti e quindi consumati a centinaia, se non a migliaia di chilometri lontano dalle località di produzione. Quindi i tempi che passano tra la raccolta e il consumo possono divenire molto lunghi. Da parte dei produttori e dei distributori si tende quindi ad anticipare la raccolta dei prodotti deperibili quanto più è possibile, con un evidente peggioramento della qualità e del sapore del prodotto una volta che giunga alla tavola del consumatore. Nel caso delle carni, il contenuto in acqua è correlato con la giovane età, il sesso e lo scarso uso dell’apparato muscolare degli animali. Inoltre, in genere, carni con un elevato contenuto di acqua tendono a essere più tenere, anche se meno saporite. Purtroppo, si sa bene che la presenza di una quantità di ormoni femminili superiore alla norma rende più ricche di acqua e quindi anche più tenere, le carni dei giovani maschi all’ingrasso. Di fatto, se la quantità di ormoni artificialmente forniti all’animale risulta eccessiva, si configurano sia problemi di frode commerciale (si vende acqua al prezzo della carne) che per la salute del consumatore. Nel nostro Paese è comunque proibito fornire ormoni naturali o artificiali agli animali domestici all’ingrasso”.

Ma come può il consumatore distinguere tra un prodotto e un altro apparentemente simili?

“In effetti è difficile. Di fatto, tranne che in pochi casi, le informazioni sulla varietà di piante e sulle razze di animali che hanno originato il prodotto o sull’area e modalità di produzione dei prodotti stessi sono inesistenti (più o meno volutamente da parte di molti produttori e distributori), per cui l’educazione del consumatore non trova alcun riferimento semplice e pratico. Eppure, non è la stessa cosa mangiare un pomodoro prodotto in Olanda piuttosto che in Calabria. Quindi, una certificazione di qualità che dica al consumatore che “varietà” di pomodoro o di mela stia acquistando, dove è stata prodotta o con che metodo è stato allevato l’animale dal quale proviene la carne è certo un obiettivo che oggi parrà ambizioso, ma di cui inesorabilmente il produttore ed il distributore di prodotti dovranno tenere conto in futuro”.

L’opinione pubblica è oggi più sensibile al problema dell’impatto ambientale dei prodotti e delle tecniche dell’agricoltura convenzionale. Non si può fare a meno dei prodotti chimici?

“L’agricoltura convenzionale” è notevolmente evoluta rispetto a venti o trent’anni fa, periodo di massimo intervento chimico in agricoltura. Oggi si parla di “tecniche di controllo integrate” cioè di una serie di interventi, specialmente per il controllo di parassiti, che utilizzano conoscenze più approfondite in materia. Per esempio, tecniche di monitoraggio delle popolazioni di parassiti, in modo da intervenire non più “a calendario” (una volta alla settimana o ogni dieci giorni, sistematicamente), ma solo quando la presenza del parassita specifico, catturato con vari tipi di trappole, superi la “soglia economica del danno”. Man mano sono stati sviluppati pesticidi da distribuire sulle colture, che agiscono sia per contatto che per via sistemica (cioè che penetrano e circolano all’interno della pianta), sempre meno pericolosi per i vertebrati e con tempi di metabolizzazione (e quindi di persistenza di azione) sempre più brevi, in modo da evitare la presenza di residui nel prodotto finale. Sono sviluppate e applicate su larga scala anche numerose tecnologie di lotta biologica, secondo le quali i parassiti vegetali (specialmente insetti o artropodi in genere) sono controllati da altri artropodi predatori o da parassiti specifici. Di fatto, questo tipo di controllo è legato a quanto è stato osservato in natura prima dell’uso dei pesticidi chimici ad ampio spettro di azione. Infatti, in tal caso, l’insetticida elimina sì l’organismo nocivo alla coltura, ma con esso, molto spesso, elimina anche i suoi predatori o parassiti naturali, lasciando completamente indifesa la coltura nel caso si verifichino nuovi attacchi da parte del parassita. Un discorso del tutto analogo si può fare per quanto concerne l’uso degli erbicidi per il controllo delle piante spontanee infestanti le colture. Piuttosto che eliminarli in modo indiscriminato, in molti casi può essere sufficiente il loro controllo per via meccanica (per eradicazione, interramento o, come nel pirodiserbo, ricorrendo a trattamenti termici) o facendo preventivamente ricorso a piante “utili” alla coltura, come le cover crops, che entrano in competizione con le malerbe per i nutrienti, la luce e l’acqua, impedendo così il diffondersi delle malerbe stesse”.

E’ vero che le biotecnologie potrebbero ridurre l’impiego di prodotti chimici?

“In questi ultimi decenni, si è avuto un notevole sviluppo di tutte le biotecnologie genetiche che trasferiscono alle varietà vegetali particolari geni (cioè caratteri ereditari) di resistenza a specifiche malattie (per esempio virosi, batteriosi, micosi, ecc.). Da tempo, tramite incroci (o induzione di mutazioni) sono stati trasferiti geni di resistenza da linee portatrici di tali caratteri alle linee, cultivar o ibridi, che risultano, così, migliorate anche per tali caratteristiche. La linea risulta così costituzionalmente resistente e quindi non vi è la necessità di intervenire in altri modi. In questi ultimi anni si sono potute superare le barriere di trasferimento di geni utili per incrocio, grazie a tecnologie di innesto del Dna che hanno dato origine alle cosiddette piante “Ogm” (organismi geneticamente modificati) o “transgeniche”: termini entrambi impropri, ma entrati comunemente in uso. In tal modo, singoli geni utili, isolati anche in organismi molto lontani filogeneticamente (per esempio in batteri), si sono potuti trasferire nelle piante, che possono così “difendersi” geneticamente da alcuni parassiti. Per esempio, dal Bacillus turingensis è stato isolato un gene che codifica per la produzione di una proteina tossica nei confronti di insetti, particolarmente di lepidotteri. Tale gene è stato introdotto in diverse specie (per esempio nel cotone, nel mais, nella soia, nel riso) rendendo le piante geneticamente resistenti a vari tipi di lepidotteri parassiti di questa specie”.

Queste tecnologie sono oggi molto discusse e criticate dagli ecologisti, che mettono in dubbio l’innocuità per l’uomo e per l’ambiente di tali operazioni…

“Sta di fatto che ormai ibridi e varietà “transgenici” occupano decine di milioni di ettari, a livello mondiale, finora senza manifesti danni a livelli di salute umana. Infatti, che io sappia, non sono mai stati segnalati casi di mortalità messe direttamente in correlazione a ingestione di cibi derivati da piante transgeniche”. Ma, al contrario, sono molti i prodotti “naturali” che risultano essere tossici o velenosi per l’uomo! Il fatto è che il problema è mal posto: il danno più importante dell’introduzione da parte di poche multinazionali sementiere di questi prodotti è legato al fatto che i geni introdotti godono di brevetti che durano troppo a lungo e che rischiano di mettere fuori mercato (a causa degli indubbi risultati a livello produttivo) le altre varietà e ibridi, oggi presenti in gran numero, che non possiedono le caratteristiche genetiche di resistenza così indotte. Probabilmente, sarebbe sufficiente ridurre il periodo di validità dei brevetti sui geni a un massimo di dieci anni (o comunque a un tempo sufficiente a rientrare dai costi sostenuti per la ricerca), e quindi renderli disponibili a tutti, una volta dimostrata la loro efficienza e innocuità. Si verrebbe così a rompere una situazione di monopolio su specie di fondamentale importanza per l’alimentazione del genere umano, mantenendo al contempo un elevato grado di biodiversità e offrendo indubbi vantaggi, specie agli agricoltori delle aree più povere del mondo. Quindi, con ogni probabilità, il problema, come pure la soluzione, sono più propriamente politici che tecnologici. Ciò non toglie che su tutti i prodotti alimentari, transgenici o meno, si debba esercitare, da parte di autorità competenti, un controllo continuo, accurato e tempestivo, per garantire al meglio la salute del consumatore”.

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