Una scintilla di vita ai confini del caos

Pochi, tra i non esperti, se ne sono accorti. Ma lo scorso 8 agosto, mentre i media di tutto il mondo inseguivano con forte eccitazione l’annuncio del probabile ritrovamento di un batterio fossile di origine marziana fatto dalla Nasa, sulla rivista scientifica “Nature” il biochimico David Lee e un gruppo di suoi collaboratori presso lo “Scripp Research Institute” di La Jolla, in California, pubblicavano il resoconto di un esperimento che potrebbe presto diventare una pietra miliare nella ricostruzione di quella transizione di fase nella storia della materia che chiamiamo “origine della vita”.

L’esperimento messo a punto da Lee e dal suo gruppo è consistito nell’autoreplicazione di un peptide, un frammento di proteina costituito da 32 amminoacidi con una conformazione ad elica.

Tra i primi a cogliere l’estrema importanza di quella reazione di autocatalisi è stato il californiano Stuart Kauffman, medico esperto dell’algebra di Boole, teorico emergente della complessità, cervello di punta presso il Santa Fe Institute, nel New Mexico.

Stuart Kauffman è venuto la scorsa settimana a Roma, ospite dell’Accademia dei Lincei, per spiegare come la reazione di Lee abbia le carte in regola per cercare di risolvere uno dei grandi problemi aperti della biologia contemporanea: la transizione dal non vivente al vivente.

Non sappiamo come sia andata su Marte. Ma è abbastanza certo che la vita è apparsa sulla Terra almeno 3,8 miliardi di anni fa. Settecento milioni di anni dopo la formazione del nostro pianeta e appena 100 o 200 milioni di anni dopo che si sono create le condizioni ambientali adatte: perché i vulcani hanno smesso finalmente di lavorare senza sosta e di mantenere incandescente la superficie terrestre; e perché è cessato, o almeno si è drasticamente ridotto, quell’intenso bombardamento cosmico a opera di grossi meteoriti e di asteroidi che rendeva la Terra un luogo impossibile per qualsiasi esperimento di vita.

L’intervallo di tempo, 100 o 200 milioni di anni, tra la creazione di un ambiente minimo adatto e la comparsa dei primi batteri è, teoria delle probabilità alla mano, troppo breve per poter spiegare la transizione dal non vivente al vivente in termini puramente statistici di incontri fortunati tra molecole. Nessun biologo dubita che ci sia stato qualcosa che ha accelerato il processo. Già, ma cosa?

Stuart Kauffman crede di avere una possibile risposta. Egli è convinto che la vita non sia il prodotto, fortunato ma casuale, di una storia cosmica unica e irripetibile. Il caso regola i dettagli, ovvero contribuisce a determinare la forme particolari che assume la vita nel corso dell’evoluzione. Ma la vita in sé, la vita quale stato altamente organizzato della materia, è lo sbocco necessario di leggi ineluttabili: le leggi dell’auto-organizzazione e dell’ordine che emerge ai confini del caos.

La materia non vivente, sostiene Kauffman facendo leva sull’algebra booleana dei suoi modelli al computer, subisce una transizione di fase e si auto-organizza, spontaneamente ma necessariamente, in materia vivente quando la complessità chimica, in un qualsiasi ambiente, supera una certa soglia critica.

La vita, sostiene il medico-matematico, è emersa sulla Terra 3,8 miliardi di anni fa (o giù di lì), non appena la spontanea e casuale crescita di complessità chimica sulla Terra ha superato una soglia minima dando luogo a una sufficiente diversità di specie molecolari e, soprattutto, di interazioni tra specie molecolari prebiotiche.

Se condizione necessaria e sufficiente per la transizione dal non vivente al vivente è oltrepassare una soglia minima di complessità chimica, ovvero avere una sufficiente varietà di molecole interagenti, allora nulla impedisce che anche un biochimico in laboratorio possa ricreare le condizioni per “creare la vita”.

Il problema è individuare questa soglia minima di complessità chimica oltre la quale avviene, necessariamente, la transizione. Stuart Kauffman crede di averla individuata. La soglia minima non è costituita dalla presenza in una soluzione adatta di molecole autocatalitiche, come alcuni Rna o come il peptide di Lee. Questi insiemi non sono in grado di mantenersi, come fa una cellula vivente, lontano dall’equilibrio, organizzando cicli termodinamici di lavoro coordinato e nello stesso tempo controllando, limitando, correggendo reazioni indesiderate. Per fare tutto ciò occorre che si costituiscano “insiemi autocatalitici collettivi”. Insiemi in cui non sono i singoli componenti ad autoreplicarsi, ma è l’insieme stesso a possedere la capacità di autoreplicarsi attraverso il lavoro coordinato dei suoi componenti. Proprio come avviene in una cellula, dove non sono il Dna, gli Rna o le proteine ad autoreplicarsi, ma è la cellula stessa grazie al lavoro coordinato dei suoi singoli componenti.

Dov’è allora l’importanza dell’esperimento di Lee? Beh, questo esperimento dimostra che i biochimici possono ormai sintetizzare un’alta diversità di frammenti di Dna, di Rna e di proteine. Possono creare, quindi, in laboratorio un brodo prebiotico sufficientemente complesso in cui le leggi dell’auto-organizzarsi possono finalmente operare la transizione spontanea dal non vivente al vivente..

Non resta, dunque, che attendere. Per verificare se Stuart Kauffman ha ragione. E se in qualche laboratorio, seguendo la sua ricetta, un biochimico riuscirà, dopo qualche miliardo di anni, a emanare di nuovo il soffio della vita.

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