Una terra senza legge

Un Paese ricco di risorse naturali, con la maggiore biodiversità nel mondo per centimetro quadrato. Ma anche un Paese devastato dalla guerra civile dove dal 1985 a oggi si contano più di 60 mila vittime e circa due milioni di sfollati. E dove ogni giorno 20 persone muoiono per difendere i diritti umani: sindacalisti, esponenti della società civile e comuni cittadini. E’ la Colombia, una terra stretta in una morsa: tra le multinazionali intenzionate ad accaparrarsi quel patrimonio di risorse, i narcotrafficanti, i paramilitari, l’esercito regolare, i guerriglieri dell’Eln, l’Esercito di liberazione nazionale, e quelli delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia. Dopo l’insediamento del neoeletto presidente, l’indipendente di destra Alvaro Uribe, la rottura del processo di pace, lo scorso febbraio, ha accentuato l’instabilità interna mentre un ulteriore colpo alle libertà civili è stato assestato in agosto. In nome della sicurezza interna e rispettando la linea dura promessa in campagna elettorale, Uribe ha dato un giro di vite alla limitazione delle libertà fondamentali. Così il rapimento domenica scorsa del vescovo cattolico Jorge Enrique Jimenez Carvajal può essere letto come uno dei segnali del clima surriscaldato che si respira in Colombia. Un clima rovente di cui è testimone Berenice Celeyta, antropologa forense e presidente di Nomadesc, un’associazione per l’investigazione e l’azione sociale che si occupa di diritti umani per i sindacati colombiani Sintraminercol e Sintraemcali, in Italia in questi giorni per un giro di conferenze. Minacciata di morte, vive scortata dai volontari di Peace Brigades International: “Ho preferito il deterrente di questi scudi umani alla scorta armata offertami dal governo”, ha dichiarato ieri a Roma, dove invitata da Amnesty International e da Peace Brigades International ha parlato di diritti sindacali e repressione in Colombia. Galileo l’ha intervistata. Dopo l’elezione del presidente Alvaro Uribe, qual è la situazione dei diritti umani in Colombia?”Il fatto più grave è che il Presidente ha stabilito delle restrizioni alle libertà civili e politiche dei colombiani permettendo all’esercito e alla polizia di imprigionare i cittadini senza un’ordinanza da parte del giudice, di rispondere con la forza a ogni forma di resistenza e, in pratica, di commettere svariati abusi di autorità. Abusi che di fatto si sono verificati in alcune città come Medellin, nel quartiere de la Comuna 13, dove per sei giorni la popolazione civile è stata attaccata: molte abitazioni sono state distrutte o danneggiate e i cittadini arrestati arbitrariamente. Ci sono stati morti, almeno uno al giorno, un fatto gravissimo per un Paese che si dichiara democratico. Un’altra misura del presidente Uribe si rivolge contro la cooperazione internazionale. Un decreto infatti ha stabilito che adesso i cooperanti debbano esibire un documento di lavoro che è difficile da ottenere: un modo per penalizzare le organizzazioni che si battono per il rispetto dei diritti umani”. Prima dell’insediamento, Uribe ha fatto un viaggio in Europa chiedendo l’aiuto dei Paesi dell’Unione e della Nato per l’avvio del processo di pacificazione della Colombia… “Il presidente si era rivolto a organizzazioni e istituzioni di Paesi che si battono contro la violazione dei diritti civili, economici e sociali. Ma oggi, a mio avviso, quegli stessi Paesi, Italia compresa, ma anche le Nazioni Unite e gli organismi multilaterali che hanno dato il loro appoggio a Uribe, dovrebbero pronunciarsi contro l’arbitrarietà della violenza che ogni giorno si consuma in Colombia, contro la guerra civile e in favore delle comunità locali. Non dovrebbero invece avallare l’implementazione del Plan Colombia [l’accordo con gli Usa per la lotta alla droga, sottoscritto nel 2000, N.d.R.] che rafforza la presenza militare nel Paese, aumentando le spese per l’acquisto di elicotteri e armi e l’arruolamento di uomini. Per colpa della guerra civile, ogni anno in Colombia muoiono più di 7800 persone. Ogni due giorni un sindacalista muore assassinato dai gruppi paramilitari e ogni tre ore una famiglia si unisce alle fila dei “desplazados”, gli esuli interni che sono costretti ad abbandonare la loro casa e a cambiare luogo di residenza per motivi politici”. Cosa comporta per il Paese il Plan Colombia?”Per noi è mortale, perché sancisce il diretto e massiccio intervento degli Stati Uniti sul piano militare ma anche su quello economico e sociale. Di fatto, mette la Colombia nelle loro mani. Il Plan va contro lo stato colombiano e la sua autonomia e riduce le libertà individuali e collettive della popolazione. Basti un esempio concreto per capire il groviglio di interessi e connivenze che soffocano il nostro Paese: le basi antinarcotiche statunitensi si trovano nella regione di Catatumbo ricchissima di risorse naturali, nel Putamayo dove ci sono le miniere d’oro e nel Sud Bolivar. Nessuna squadra invece si è insediata nel Nudo de Paramillo, una regione orientale che è un punto di snodo del traffico della coca, dove vive Carlos Castaño, un boss del narcotraffico e il fondatore di uno dei gruppi paramilitari colombiani”. Qual è la sua opinione sul sequestro del vescovo Jimenez?”E’ un fatto grave, in sintonia con l’aria che si respira in Colombia. Oggi poi le negoziazioni per la liberazione dei sequestrati in mano delle associazioni locali, visto che il presidente Uribe ha chiuso ogni margine di trattativa con i guerriglieri. Le comunità locali portano avanti le istanze di pacificazione del Paese e la richiesta al governo di una soluzione negoziale del conflitto colombiano. La pacificazione però ci potrà essere solo se si sostiene una politica economica ragionevole, anche da parte degli organismi transnazionali e delle multinazionali che vogliono investire in Colombia. Proprio queste hanno spesso finanziato i gruppi paramilitari perché uccidessero la gente che si oppone non allo sviluppo ma al tipo di investimenti e al saccheggio sistematico delle risorse naturali e allo spoglio della ricchezza delle comunità indigene e campesine. Alcune di queste comunità però oggi si sono organizzate e hanno dato vita alle “comunità di resistenza”, ovvero cittadini in mobilitazione permanente che, a dispetto dell’impunità dei reati e della violenza arbitraria che domina il Paese, manifestano perché vengano rispettati i diritti umani e civili e combattuti gli abusi”.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here