Categorie: Società

Una terza via per il benessere

Altro che progresso: nell’ultimo ventennio per molti paesi in via di sviluppo – soprattutto in Africa, in America Latina e nell’Europa orientale – la globalizzazione galoppante in tutto il pianeta ha significato un peggioramento delle condizioni di vita. Conseguenza della necessità per le loro economie di uniformarsi alle regole del mercato mondiale. E gli effetti si sono sentiti anche sul piano socio-sanitario. A dimostrarlo, dati alla mano, è Giovanni Andrea Cornia, economista dello sviluppo, in un articolo pubblicato sull’ultimo bollettino dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Lo studioso analizza l’impatto di una globalizzazione fulminea su alcuni dei paesi più poveri e propone per queste realtà una terza via, nel rispetto delle diversità e in nome delle trasformazioni graduali.

Per alcune economie occidentali, afferma Cornia, la globalizzazione ha rappresentato senz’altro una fonte di benessere e di ricchezza, ma per altre ha significato un aumento della povertà e l’acuirsi dei conflitti sociali. Non sarebbe vero, insomma, quello che sostengono molti fautori della liberalizzazione e della globalizzazione dei mercati ovvero che gli effetti della nuova distribuzione della ricchezza siano stati in tutti i casi se non positivi almeno neutri. Bastino alcuni esempi. L’economista italiano cita in particolare la deregulation finanziaria della fine degli anni Ottanta e la liberalizzazione dei flussi di capitale degli anni Novanta come principali responsabili di numerose crisi finanziarie, bancarie e monetarie. E, quindi, della recessione economica che ha coinvolto alcuni paesi. Tra questi l’Argentina, dove oggi il tasso di povertà si è stabilizzato intorno all’8,5 per cento, un livello cioè più elevato del periodo che precedeva la crisi. Si tratta di fenomeni che influiscono anche sulla qualità dei servizi sociali, la spesa sanitaria e il lavoro nero.

Sotto gli occhi di tutti poi ci sono gli effetti dei Trade related aspectcs on intellettual property rights (o accordi Trips) nei paesi in via di sviluppo, che non garantiscono l’accesso alle cure da parte della popolazione proprio nelle zone più colpite da pandemie come l’Hiv. Se si considera poi la crescita del benessere a livello mondiale, non sembra che ci sia una relazione diretta tra l’avanzata della globalizzazione e questo processo. Lo dimostra un confronto tra il tasso di prodotto interno lordo per persona nel periodo 1960-79 e quello relativo al periodo 1980-98, passato a livello mondiale dal 2,6 per cento all’1 per cento. Questo fenomeno, spiega Carnia, se in parte è dovuto alla decelerazione della crescita dei paesi ad alto reddito, è anche legato alla caduta delle economie dei paesi in via di sviluppo che nel periodo considerato sono state liberalizzate e globalizzate. Con l’eccezione di Cina e India, dove però le riforme hanno assecondato le caratteristiche nazionali. Anche gli indicatori del benessere sanitario confermano questa situazione. Soprattutto negli anni Novanta, in molte zone dell’Africa e nei paesi dell’ex Unione Sovietica, il tasso di mortalità, per esempio, è decresciuto più lentamente che negli anni precedenti. A dispetto anche del massiccio aumento dei programmi di prevenzione e della diffusione della vaccinazione infantile.

Insomma se si mettono sul piatto della bilancia costi e benefici apportati dall’espansione dei mercati globali, dei risparmi internazionali, del trasferimento di tecnologia, si nota che i secondi hanno interessato solo alcuni paesi. Per la maggioranza degli stati, invece, la globalizzazione non ha mantenuto le sue promesse. Qui infatti la fragilità delle economie locali e la diffusione delle asimmetrie di accesso al mercato hanno provocato nell’ultimo ventennio una crescita lenta e instabile e una stagnazione nelle condizioni sanitarie.

Qual è quindi la ricetta per i paesi in via sviluppo sulla via della globalizzazione?Per Cornia la soluzione non può essere certo un ritorno all’autarchia ma nemmeno una globalizzazione a tutti i costi. Occorre piuttosto una integrazione graduale e selezionata nell’economia globale, associata alla rimozione degli squilibri del mercato globale e alla creazione di nuove istituzioni democratiche di governo globale. Non proprio una terza via insomma, ma almeno un ingresso non traumatico nel mondo dei ricchi.

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