Sostanze stupefacenti e psicotrope. Volgarmente conosciute come droghe e tradizionalmente associate a scenari di degrado, criminalità, malattia e morte. Che certamente (purtroppo) esistono, ma che sono solo una parte della storia. Accanto ce n’è un’altra, meno nota – almeno in Italia – e più virtuosa. Che racconta degli effetti terapeutici delle sostanze stupefacenti, su cui la comunità scientifica internazionale indaga da tempo, e le cui evidenze sperimentali iniziano ad accumularsi e diventare sempre più consistenti. Eppure, nonostante i risultati siano così incoraggianti, il nostro paese non riesce ancora a stare al passo del resto del mondo: come avevano già spiegato sulle pagine di Wired Marco Cappato e Marco Perduca, dell’Associazione Luca Coscioni, in Italia infatti permane ancora una sorta di “medioevo sulle droghe”, in opposizione al cosiddetto “rinascimento psichedelico” statunitense.
Senza scomodare nomi che ancora fanno molta paura, come Mdma, Lsd, psilobicine e iboga, parlare anche solo di cannabis terapeutica nel nostro paese è piuttosto complicato: sebbene dal 2007 sia legale prescrivere la sostanza per terapie complementari, l’approvvigionamento della pianta, così come la sua coltivazione per fini di ricerca, restano attività complicate dalla penalizzazione per l’uso ricreativo. Temi che trattati il 29 settembre nel corso del convegno internazionale Diritto alla scienza e libertà di ricerca sulle sostanze stupefacenti e psicotrope, organizzato dall’Università di Torino insieme all’Associazione Luca Coscioni a margine della quarta riunione dei ministri della scienza e della tecnologia dei paesi del G7, in programma nel capoluogo piemontese.
Di seguito un punto scientifico della situazione, dai risultati già consolidati alle prospettive future, sperando che presto anche nel nostro paese la ricerca nel settore possa decollare.
Mdma
Si tratta di una sostanza che appartiene alla classe delle metamfetamine, sviluppata e sintetizzata per la prima volta nel 1912 da una società farmaceutica, la tedesca Merck, che all’epoca stava lavorando a medicinali antiemorragici. L’azienda brevettò la molecola, ma in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale ne arrestò la produzione: alla fine del conflitto, il brevetto fu consegnato agli alleati come bottino di guerra. Di fatto, fino agli anni settanta il composto non venne mai prodotto: a rispolverarlo fu il chimico Alexander Shulgin, che ne sintetizzò un lotto nel suo laboratorio nel cortile di Berkeley, riconoscendone il potenziale terapeutico per le sue capacità di abbassare gli stati di ansia e per le sue proprietà sedative. Tuttavia, pochi anni più tardi l’Mdma iniziò a essere utilizzata a fini ricreazionali, diventando una delle sostanze più consumate nei rave e nei club notturni: per questo motivo, fu messa al bando dagli enti regolatori (nel 1985 negli Stati Uniti, nel 1988 in Italia) e la ricerca scientifica fu abbandonata.
Solo in tempi più recenti si è tornato a studiare gli effetti terapeutici dell’Mdma: i lavori più importante nel campo sono quelli condotti dalla Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies (Maps), una sorta di casa farmaceutica no-profit che aiuta gli scienziati a progettare, finanziare e ottenere l’approvazione ufficiale da parte della Food and Drug Administration (Fda) e dell’Agenzia europea per i medicinali (Emea) di studi su sicurezza ed efficacia delle sostanze stupefacenti.
Gli esperti di Maps, in particolare, sono a lavoro su uno studio clinico di fase 3, iniziato a luglio, che coinvolge circa 230 pazienti e indaga se e come l’Mdma, associato a psicoterapia, possa aiutare il trattamento di pazienti con disturbo da stress post-traumatico (Dspt, ovvero persone che hanno vissuto o assistito a eventi dal forte impatto psicologico ed emotivo, legati per esempio a violenze sessuali o guerra) – malattia di cui soffrono, secondo le stime più recenti, circa otto milioni di persone ogni anno nei soli Stati Uniti. Lo studio pilota, condotto a dicembre scorso su un piccolo gruppo di pazienti e pubblicato sul Journal of Psychopharmacology, aveva dato risultati interessanti: oltre la metà dei partecipanti aveva riferito una netta diminuzione dei sintomi per circa sei anni dopo aver ricevuto il trattamento con l’Mdma.
Anche un lavoro precedente, pubblicato sulla stessa rivista a novembre 2012, aveva mostrato che in media, dopo l’assunzione di tre dosi di Mdma, i soggetti affetti da Dspt “mostrano miglioramenti stabili e statisticamente significativi nella sintomatologia”. Il razionale della ricerca sta nel fatto che la sostanza è nota per agire sull’amigdala, l’area del cervello adibita all’elaborazione delle emozioni e alla regolazione delle sensazioni di empatia, fiducia e paura.
In ogni caso, le speranze della comunità scientifica sono di allargare ulteriormente gli orizzonti di utilizzo della sostanza: Rick Doblin, direttore di Maps, sostiene che l’Mdma potrebbe essere usato anche per trattare disturbi alimentari, ansia associata a malattie mortali e addirittura schizofrenia.
Lsd
Nome scientifico dietilammide-25 dell’acido lisergico, l’Lsd è una potentissima sostanza psichedelica. Fu sintetizzato il 16 novembre 1938 dal chimico Albert Hofmann, anche in questo caso, così come per l’Mdma, in seno alla ricerca farmaceutica: Hofmann era infatti ricercatore dell’azienda Sandoz, l’attuale Novartis, e stava indagando gli effetti adiuvanti della circolazione e della respirazione dell’acido lisergico, composto estratto da alcuni funghi. Una delle sostanze sintetizzate fu, per l’appunto, la dietilamide dell’acido. Che risultò totalmente inadatta allo scopo, rivelando però delle potenzialità inattese: l’assunzione di Lsd causava, infatti, alterazioni della percezione e dell’umore, amplificazioni dei sensi e distorsioni nella percezione della realtà.
Dal punto di vista farmacologico, il composto agisce sia sul sistema nervoso centrale che su quello periferico, influenzando in particolare l’attività dei recettori per la serotonina e per la dopamina: per questo, negli anni cinquanta e sessanta, l’Lsd è stato sperimentato nella terapia psichiatrica, in particolare per il trattamento delle psicosi.
In seguito, dopo la sua diffusione come droga ricreativa, è stato messo al bando dagli enti regolatori statunitensi ed europei. Come per l’Mdma, se ne è tornato a parlare di recente: gli esperti di Maps stanno infatti studiando l’uso dell’Lsd per il trattamento dell’ansia associata alle malattie mortali, della depressione e delle dipendenze.
Un piccolo studio pilota, condotto su 12 soggetti a marzo 2014 e pubblicato sul Journal of Nervous and Mental Disease, ha mostrato la sicurezza e l’efficacia dell’assunzione controllata del composto – associata a sessioni di psicoterapia – nella riduzione dei sintomi dell’ansia. Un altro lavoro, condotto nel 2011 da un’équipe di ricercatori di Harvard e pubblicato sulla rivista Neurology, ha svelato una discreta efficacia dell’Lsd nel trattamento della cefalea a grappolo; lo Imperial College di Londra ha avviato nel 2014 una ricerca sul potenziale terapeutico della sostanza nel trattamento della depressione e delle dipendenze; un lavoro pubblicato nel 2015 sulla rivista Language, cognition and neurosciences ha suggerito un possibile effetto dell’Lsd rispetto alla cosiddetta attivazione semantica, un processo cognitivo coinvolto, per esempio, nell’associazione nome-oggetto.
Va precisato, però, che al momento gli studi hanno coinvolto campioni molto ridotti di persone e dunque sarà necessario svolgere analisi più approfondite per giungere a conclusioni più solide e convincenti. Ed è proprio per questo che la ricerca nel settore andrebbe incoraggiata.
Psilocibine
Tecnicamente, si tratta di una triptammina, sostanza dalla struttura chimica molto simile alla serotonina. Si estrae dai funghi del genere Psilocybe e Stropharia, ed è usata come droga ricreazionale in virtù dei suoi potenti effetti allucinogeni. Tuttavia, diversi studi, nel corso dell’ultimo decennio, ne stanno cercando di mostrare l’efficacia terapeutica per trattare diverse condizioni, tra cui disturbi della personalità, cefalee a grappolo, superamento del Dspt, ansia e dipendenze. Uno studio pubblicato sul Lancet Psychiatry nel 2016, per esempio, ha mostrato che la psilocibina potrebbe essere un buon “punto di partenza” per lo sviluppo di farmaci antidepressivi: la ricerca, condotta su 12 pazienti che hanno ricevuto una dose orale della sostanza, ha mostrato un miglioramento significativo dei sintomi, che nella metà dei casi si è trasformato in una remissione completa della malattia a cinque mesi dal trattamento.
Un lavoro precedente, pubblicato nel 2014 sul Journal of Psychopharmacology, ha mostrato invece che la psilocibina è efficace per combattere la dipendenza da nicotina: 12 fumatori pesanti, dei 15 arruolati nello studio, hanno smesso di fumare per sei mesi dopo il trattamento con la sostanza. Un successo dell’80%, molto significativo se comparato a quello del trattamento attualmente ritenuto più valido, la vareniclina, che si attesta al 35%.
Cannabis terapeutica
Un capitolo a parte merita, naturalmente, la cannabis, di cui Wired ha più volte raccontato il possibile potenziale terapeutico rispetto a una vasta gamma di disturbi, da nausea, dolori cronici e ansia fino a patologie più gravi come malattie neurodegenerative, tumori ed epilessia. Per quanto la discussione sia scientifica che politica sull’uso della cannabis terapeutica sia ancora più aperta che mai, sempre più nazioni in tutto il mondo (tra cui l’Italia) hanno deciso di rendere disponibile e commercializzare legalmente la sostanza – se pur con limitazioni e norme che variano significativamente da paese a paese.
Va precisato, comunque, che per quanto i dati scientifici continuino ad accumularsi, al momento non ci sono ancora evidenze chiare e univoche sugli effetti della cannabis. L’uso più comune che si fa della sostanza (a scopo terapeutico) è come analgesico, ma va specificato che la legge italiana ne consente la prescrizione solo nel caso gli antidolorifici tradizionali risultano inefficaci, e sempre in aggiunta – non in sostituzione – a questi ultimi. Cosa che non consente di discernere con precisione quali siano i reali effetti della sostanza. Inoltre, la cannabis viene utilizzata come anti-emetico e come stimolante dell’appetito in pazienti sottoposti a chemioterapia, ed è in fase di studio come farmaco per prevenire malattie dell’appetito come bulimia e anoressia.
E ancora, come accennato in precedenza: è attualmente allo studio il possibile effetto protettivo della sostanza contro malattie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer, e per la sua presunta capacità di migliorare la qualità della vita di pazienti che soffrono di malattie ricorrenti. Sottolineiamo che si tratta, al momento, di ambiti terapeutici per i quali la prescrizione della cannabis non è stata approvata da alcun ente regolatorio.
Il problema principale è che si tratta di una sostanza molto complessa: la cannabis contiene infatti oltre cento tipi diversi di cannabinoidi, sostanze che agiscono su un particolare tipo di recettori del cervello (quelli che fanno parte del cosiddetto sistema endocannabinoide), la cui attivazione regola funzioni legate ad appetito, umore, memoria e dolore. E le caratteristiche farmacologiche di molte di queste molecole sono ancora sconosciute.
Uno degli studi più approfonditi, un lavoro che ha rianalizzato criticamente tutte le prove attualmente disponibili sull’efficacia della cannabis terapeutica, condotto dagli esperti della University of Bristol e pubblicato sul Journal of the American Medical Association, ha osservato che al momento i dati sono tropo vaghi per poter trarre conclusioni certe: “Ci sono prove di qualità moderata”, scrivevano gli autori, “che suggeriscono che i cannabinoidi potrebbero essere di beneficio per il trattamento delle neuropatie croniche, del dolore da cancro e della spasticità tipica della sclerosi multipla. Ci sono prove di bassa qualità che mostrano che i cannabinoidi siano associati a miglioramenti nel trattamento della nausea e del vomito dovuti alla chemioterapia, della perdita di peso nei pazienti sieropositivi, dei disturbi del sonno e della sindrome di Tourette. E, infine, ci sono evidenze di pessima qualità per un miglioramento dell’ansia”.
Dello stesso avviso un altro grande studio commissionato dalle National Academies of Science, Engineering, and Medicine, che ha esaminato più di 10mila articoli scientifici pubblicati a partire dal 1999, in particolare sugli effetti della cannabis per il trattamento di cancro, disturbi mentali, malattie respiratorie e problemi alimentari, concludendo che ancora mancano prove significative di efficacia e conferme di effettivi benefici.
Via: Wired.it