Veleni da non dimenticare

Verrà riconvertito in un ecomuseo lo stabilimento dell’Ipca, (Industria Piemontese dei Colori di Anilina), un luogo che ha dato prima il lavoro e poi la morte agli operai del comune di Ciriè, a una quindicina di chilometri da Torino. E’ questa, a distanza di trent’anni dal caso Ipca e a tre dalla bonifica dei vecchi capannoni, l’intenzione della giunta comunale per ricordare la storia di quegli operai accomunati da un destino infame: il cancro alla vescica. E per non dimenticare che, ieri come oggi, di lavoro si può anche morire. Due gli eventi previsti oggi a Ciriè: un convegno (“I rischi chimici. Il nuovo decreto D.L. 25/2002”) e uno spettacolo (“I topi non portano gli zoccoli. Ipca: una storia di fabbrica” della Compagnia Teatri Irrequieti).Il caso dell’Ipca esplose nel giugno del 1972, in seguito all’intervento dell’Inas, il patronato della Cisl, che denunciò in un libro bianco (“Il caso Ipca – Almeno so di cosa morirò”) le condizioni di lavoro nella fabbrica, i ripetuti incidenti, l’inquinamento delle acque della Stura per colpa degli scarichi e l’epidemia di tumori alle vie urinarie. Il libro bianco conta tra 200 operai (per lo più contadini emigrati a Ciriè dalle campagne dei dintorni) 24 diagnosi di tumore e 15 morti. Colpa, oggi sappiamo, delle amine aromatiche (un gruppo di composti organici con almeno un radicale aminico), tra cui la beta naftilamina, la xenilamina e i loro sali, che nella fabbrica venivano usate per preparare i coloranti. All’Ipca l’esposizione alle sostanze cancerogene era un calvario quotidiano, come rivelano le testimonianze di alcuni operai raccolte nel libro bianco e poi pubblicate anche dalla rivista Sapere in un numero dedicato al cancro da lavoro del marzo 1974.Alla denuncia dell’ispettorato del lavoro seguì l’indagine della Procura di Ciriè e quindi il processo ai proprietari, ai dirigenti e al il medico di fabbrica dell’Ipca, uno tra i primi celebrati in Italia per morti e lesioni conseguenti a malattie professionali. La sentenza arriverà nel 1977 dalla Terza sezione del Tribunale Civile e Penale di Torino che dichiarò gli imputati colpevoli dei reati di omicidio colposo.Oggi lo scenario all’interno delle industrie a rischio chimico è cambiato ed esiste un’accurata normativa per tutelare i lavoratori, aggiornata recentemente dal decreto legislativo n° 25 del 2002, entrato in vigore lo scorso giugno. Modificando una legge emanata nel 1994, il provvedimento fissa dei limiti alla presenza di sostanze tossiche nell’ambiente di lavoro. “Il decreto tiene conto delle procedure disponibili oggi per valutare il rischio chimico”, commenta Ivo Pavan dirigente chimico del Servizio Igiene Industriale dell’Università di Torino. Dalla nuova normativa sono escluse le sostanze riconosciute o anche solo sospette di essere cancerogene, la cui presenza nell’ambiente di lavoro non è tollerata in alcuna concentrazione. Ancora oggi però non tutti gli impianti sono a norma. “Le situazioni che possono essere considerate a rischio riguardano la piccola e media industria e particolari settori produttivi, come la lavorazione del legno e le verniciature”, aggiunge Pavan. Ma gli anni in cui la sensibilità verso il problema era scarsa hanno lasciato una pesante eredità: “I tumori di origine chimica in Italia sono stimati tra i quattromila e gli ottomila. I tempi di latenza della malattia sono lunghi e spesso si tratta di ammalati che sono stati esposti a sostanze cancerogene anche vent’anni fa”, spiega Benedetto Terracini, già epidemiologo all’Università di Torino e oggi direttore della rivista Epidemiologia e prevenzione. “Ma la cosa più grave”, aggiunge lo studioso, “è ancora oggi l’atteggiamento dell’Inail, che riconosce un numero di tumori professionali inferiore a quelli reali”.

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