Il libro incompiuto di Edoardo Amaldi

Il disastro della fisica

Il treno con la famiglia Fermi era partito dalla stazione Termini per Stoccolma la sera del 6 dicembre 1938, se ben ricordo, attorno alle 21. Franco Rasetti, Ginestra ed io e qualche loro parente eravamo rimasti a salutarli sulla banchina e poi eravamo tornati alle nostre case. Io, per strada, guardavo la gente che naturalmente non se ne rendeva conto, ma sapevo, anzi noi tutti sapevamo che quella sera si chiudeva definitivamente un periodo, brevissimo, della storia della cultura in Italia che avrebbe potuto estendersi e svilupparsi forse avere una influenza più ampia sull’ambiente universitario e, con il passare degli anni, magari anche sull’intero paese. Il nostro piccolo mondo era stato sconvolto, anzi quasi certamente distrutto, da forze e circostanze completamente estranee al nostro campo d’azione. Un osservatore attento avrebbe potuto dirci che era stato ingenuo pensare di costruire un edificio così fragile e delicato sulle pendici di un vulcano che mostrava così chiari segni di crescente attività. Ma su quelle pendici eravamo nati e cresciuti e avevamo sempre pensato che quello che facevamo fosse molto più durevole della fase politica che il paese stava attraversando.

Nei giorni successivi all’annuncio della assegnazione del premio Nobel a Fermi, parte della stampa si era limitata a darne notizia in forma estremamente breve, parte era giunta ad esprimere un cauto compiacimento per il riconoscimento internazionale che aveva ricevuto il lavoro scientifico di Fermi, svolto in una università italiana, anzi in quella della capitale, e, talvolta aveva cercato di farne risalire il merito al regime, come del resto sarebbe accaduto con qualsiasi altro governo. Ma al tempo stesso trapelava, qua e là, qualche preoccupazione per la imperfezione razziale della famiglia di Fermi e dell’ambiente dell’Istituto e della fisica italiana in generale e per il sospetto che Stoccolma fosse per Fermi la prima tappa di un viaggio ben più lungo. Tanto più che Fermi aveva ricevuto un invito da parte della Columbia University per sette mesi e aveva quindi chiesto al Ministero di essere posto in congedo per l’intero anno accademico 1938-39.

Le critiche cominciarono ad assumere un tono più esplicito e duro quando cominciò a venir proiettato nelle sale cinematografiche italiane un servizio di informazione (il Giornale Luce) da Stoccolma in cui si vedeva la cerimonia della premiazione “del fisico italiano Enrico Fermi e della scrittrice americana Pearl Buck” da parte di Re Gustavo V. Il fatto che Fermi invece di indossare l’uniforme fascista o quella di accademico d’Italia portasse il frack, e che invece di fare il saluto fascista stringesse la mano al sovrano svedese, determinarono una vera ondata di indignazione nella stampa più rigidamente controllata dal regime. Da più parti si osservò che questi erano solo segni di mali più profondi ed estesi e talvolta fu usata la frase “il pesce comincia a puzzare dalla testa”.

Emilio Segrè che nell’autunno 1935 era stato nominato professore di Fisica Sperimentale a Palermo, all’inizio dell’estate 1938 era andato a Berkeley a lavorare al ciclotrone e vista le piega che stavano prendendo le cose in Italia vi era rimasto. Elfriede, sua moglie, con il figlio Claudio di quasi due anni, stavano ormai per raggiungerlo.

Bruno Rossi con Nora era già partito da Padova il 12 ottobre 1938 e con il residuo di una borsa di studio di un precedente viaggio al laboratorio di W. Bothe, al Reichsanstalt in Charlottenburg vicino a Berlino, si era trasferito a Copenhagen, all’istituto di Niels Bohr.

Giulio Racah, Ugo Fano, Eugenio Fubini, Sergio De Benedetti e varii altri avevano già lasciato l’Italia o stavano per lasciarla.

La partenza di Fermi con la famiglia non ci aveva preso di sorpresa. Qualche settimana prima Fermi aveva chiamato Rasetti e me nella stanza 129B del piano “rosa” dell’Istituto, ove per varie ragioni ritenevamo con certezza che non vi fossero microfoni, e ci aveva comunicato il suo proposito di lasciare l’Italia. Ci aveva anche detto che avrebbe fatto di tutto per non danneggiare chi rimaneva, in particolare che avrebbe evitato di fare dichiarazioni pubbliche tali da determinare una reazione della stampa italiana. Noi non ci eravamo meravigliati, né avevamo protestato. Il disastro era evidente come erano chiare le sue radici vicine e lontane.

La vita in Istituto continuava, in apparenza, come se non fosse accaduto nulla, anche se fra noi tutti vi era una completa identità di vedute. Oltre a Rasetti ed a me c’erano Bruno Ferretti, assistente di Fermi, a cui la Facoltà, su suggerimento di Fermi stesso, aveva affidato la supplenza del corso di Fisica Teorica per l’anno accademico 1938-39; c’era Mario Ageno, venuto come studente da Genova a Roma nel 1935-36 e che si era laureato a Roma nel luglio 1937, Nella Mortara che si occupava, come sempre, delle Esercitazioni di Laboratorio e qualche studente fra cui O. Piccioni e M. Conversi.

Qua e là, sparsi per le università italiane, erano rimasti alcuni brandelli dei gruppi di ricercatori validi che erano stati decapitati proprio sul nascere. Per poter sopravvivere scientificamente bisognava chiaramente far di tutto per congiungere gli sforzi e quindi cominciare a riunire “i superstiti” in un numero ristretto di sedi.

Questa idea, ampiamente discussa con Bernardini, Ferretti e Wick costituì una linea d’azione a cui cercammo di attenerci per anni.

Nel corso dell’anno accademico 1938-39 (1-2-1939) riuscii a far trasferire da Palermo a Roma, Bernardo Nestore Cacciapuoti che dopo aver compiuti gli studi di Fisica a Pisa, come normalista, era diventato assistente di ruolo alla cattedra di Emilio Segrè, insieme al quale aveva fatto un importante lavoro sugli isotopi dell’elemento 43, il tecneto, scoperto qualche tempo prima da C. Perrier ed E. Segrè a Palermo.

Gilberto Bernardini, che nel 1938 era passato dalla cattedra di Fisica dell’Università di Camerino a quella di Fisica Superiore dell’Università di Bologna, seguitava a venire a Roma ove passava qualche giorno ogni settimana dato che a Bologna come a Camerino non aveva in pratica alcun mezzo per lavorare sperimentalmente.

Anche Giuseppe Cocconi riappariva di tanto in tanto a Roma. Dopo la laurea, fatta a Milano nel 1937, era venuto a Roma e nel gennaio 1938 aveva cominciato a lavorare con E. Fermi, R. Rasetti e G. Bernardini sul decadimento dei mesoni della radiazione cosmica. Ma poi era tornato a Milano ove aveva cominciato a lavorare indipendentemente sulla radiazione cosmica, sotto la protezione di Giovanni Polvani, direttore dell’Istituto di Scienze Fisiche “Aldo Pontremoli”.

In altre sedi la situazione era la seguente. A Torino c’era Persico, profondamente colpito dall’incalzare degli eventi. A Palermo erano rimasti altri due assistenti di Emilio Segrè: Manlio Mandò che dopo la partenza di Emilio era tornato a Firenze d’onde proveniva, e Mariano Santangelo, palermitano, il cui trasferimento a Roma ebbe luogo solo qualche anno più tardi (194 ) [testo mancante nell’originale-ndr]. Del gruppo sperimentale di Padova era rimasto praticamente solo l’assistente straordinario Ettore Pancini, e alla cattedra lasciata da Bruno Rossi la Facoltà aveva chiamato da Messina Antonio Rostagni. Gian Carlo Wick che nell’autunno 1937 era stato nominato professore di Fisica Teorica all’Università di Palermo era passato un anno dopo alla stessa cattedra dell’Università di Padova, ma sia dall’una che dall’altra sede manteneva stretti contatti con Roma.

Nei mesi immediatamente successivi Rasetti ed io facemmo due lavori, uno “Sopra la conversione interna dei raggi gamma e X del RaD” e l’altro “Sulle radiazioni emesse dal gadolinio per cattura dei neutroni lenti” in cui mostrammo che in seguito alla cattura del neutrone viene emesso istantaneamente un elettrone di bassa energia (30-180 KeV) dovuto alla conversione di un fotone di origine nucleare. Nel lavoro suggerivamo che, sfruttando la elevatissima sezione d’urto del gadolinio, si poteva costruire un nuovo tipo di rivelatore istantaneo di neutroni lenti dotato di alta efficienza, come di fatto accadde con tecniche ben più raffinate solo molti anni dopo.

Durante l’inverno 1938-39 una buona parte del nostro tempo veniva dedicata, insieme a Daria Bocciarelli e Giulio Cesare Trabacchi, a completare la costruzione dell’acceleratore da 1.1 milioni di volt dell’Istituto Superiore di Sanità. Non appena ultimata e messa in funzione, la macchina fu usata per una serie di misure della sezione d’urto dei diversi elementi chimici per neutroni di energia intermedia (0,1-0,2 MeV) emessi dal carbonio bombardato con deutoni di circa 600 kilovolt.

Contemporaneamente Bernardini allacciava una stretta collaborazione con B. Ferretti e N. B. Cacciapuoti, ai quali si aggiungevano ben presto O. Piccioni, giunto da Pisa come studente del 3° anno, poco prima della partenza di Fermi, e un poco più tardi Mario Ageno e Gian Carlo Wick.

Gli argomenti trattati erano la componente penetrante della radiazione cosmica e la sua natura mesotronica (o muonica come diciamo oggi), l’equilibrio per la componente elettronica e mesotronica, la instabilità del mesotrone e l’assorbimento anomalo in aria della componente mesotronica dovuto alla instabilità di questi corpuscoli. Infatti l’assorbimento che questi subiscono in uno strato d’aria interposto fra due stazioni a quote montane che differiscono, per esempio, di 1 km, è sensibilmente maggiore di quello che essi subiscono in uno strato di grafite dello stesso spessore se espresso in g/cm2. In realtà l’assorbimento propriamente detto è lo stesso nei due materiali, e il maggior assorbimento apparente dell’aria rispetto alla grafite è dovuto alla instabilità dei muoni che decadono assai maggiormente lungo un percorso di 1 km d’aria che lungo un percorso di meno di 1 m di grafite.

Queste attività venivano svolte nell’ambito dell’Istituto Nazionale di Geofisica (I. N. G.), il cui Direttore, Antonino Lo Surdo, era stato convinto da Bernardini e da me ad affiancarle allo studio dei fenomeni sismici, del magnetismo terrestre e della ionosfera verso cui era rivolto il maggior sforzo dell’Istituto.

La relazione di Bernardini sulla registrazione sistematica della intensità dei raggi cosmici riguarda un approccio che rientrava nella prassi seguita dall’I. N. G. per gli altri fenomeni terrestri assai più che negli interessi di Bernardini il quale cercava in tal modo di soddisfare le richieste di Lo Surdo.

2. La scoperta della fissione

Nel gennaio 1939 era apparso il lavoro di Hahn e Strassmann in cui si comunicava la scoperta della fissione. Seguivano immediatamente i lavori di O. Frisch e F. Joliot in cui venivano osservati direttamente, anche se con metodi diversi, i prodotti della fissione.

Ageno ed io, negli anni precedenti, avevamo progettato e costruito un amplificatore proporzionale in cui, fra l’altro, si impiegavano tubi elettronici più moderni di quelli usati nell’amplificatore che avevo costruito alla fine del 1934, seguendo lo schema Wynn-Williams. Immediatamente facemmo alcune esperienze simili a quelle di Frisch, ossia osservammo i frammenti emessi, sotto l’azione dei neutroni lenti, da un sottile strato di uranio posto davanti a una piccola camera di ionizzazione connessa all’amplificatore proporzionale. I nostri risultati non solo confermavano quelli di Frisch ma erano anche migliori. Ci accingevamo a pubblicarli ma Rasetti ci convinse a non farlo. Fu un errore perché esperienze analoghe, alcune delle quali anche inferiori alla nostra, seguitarono ad apparire durante tutto il 1939 nella stampa internazionale. Solo una notizia di poche righe sul nostro esperimento, apparve quasi incidentalmente sulla Ricerca Scientifica.

A distanza di anni con Ageno ci siamo spesso domandati come sia accaduto che ci lasciassimo influenzare in tal modo da Rasetti. E’ vero che Franco ha sempre avuto una capacità critica così penetrante da riuscire a smontare quasi ogni interlocutore. ed è anche vero che in quel periodo queste sue qualità erano enormemente acuite dalla sua completa sfiducia nella possibilità di una ripresa durevole della ricerca in Italia. Ma a questi elementi permanenti e occasionali insiti nel suo carattere, si aggiungevano forse alcune circostanze particolari.

Nel 1938 l’Università Laval di Quebéc (Canada) era giunta alla determinazione di dare impulso alle sue attività nel campo della fisica che fino ad allora erano state assai poco curate, e il suo decano, Monseigneur Alexandre Vachon, tramite l’Accademia Pontificia, di cui Rasetti era stato nominato Membro, si era messo in contatto con lui qualche mese dopo la partenza di Fermi. Rasetti aveva accettato l’invito, mi aveva informato delle sue intenzioni, e cominciava a preparare la sua partenza per il Canada.

3. Il crollo delle ultime illusioni

Nel frattempo l’Italia aveva ottenuto che la Esposizione Universale prevista nel 1942, avesse luogo a Roma. Tale decisione presa da una Commissione Internazionale veniva spesso interpretata dalla stampa italiana come un assenso al regime fascista il quale aveva stanziato somme piuttosto ragguardevoli per l’allestimento degli edifici della mostra nella zona che dopo la guerra prese il nome di quartiere EUR. Oltre agli edifici l’Italia avrebbe allestito varii padiglioni, uno dei quali dedicato alla scienza e alla tecnica. Lo Surdo, che dalla morte di O. M. Cortino era direttore dell’Istituto di Fisica G. Marconi, faceva parte della commissione incaricata di preparare questo padiglione e chiese a tutti noi di fare proposte da sottoporre alla Direzione dei lavori per l’EUR.

Dopo varie discussioni a cui parteciparono tutti o quasi tutti i giovani dell’istituto, Bernardini ed io presentammo, nel maggio 1939, la proposta di costruire un ciclotrone da esporre all’EUR ma di caratteristiche tali da poter essere usato nel seguito come strumento di ricerca. Tutti noi, sia ben chiaro, eravamo tutt’altro che entusiasti dell’idea dell’E 42, che sarebbe stata una occasione di sfoggio di retorica nazionalistica e autoincensamento fascista, ma non avevamo avuto modo di opporci e fra tanti mali ci sembrava uno dei meno peggio. Dopo tutto era un investimento ben poco sensato ma pacifico e le sue conseguenze erano ben diverse da quelle delle guerre di Etiopia e di Spagna, del patto d’acciaio con la Germania o delle conseguenti leggi razziali. Visto che il governo intendeva investire somme considerevoli in questa grande fiera della vanità, ci sembrava ragionevole ed opportuno cercare di orientare una piccola parte del denaro pubblico verso attrezzature scientifiche che sarebbero state estremamente utili nel futuro.

Allo scopo di poter progettare e costruire in Italia un ciclotrone chiesi ed ottenni dalla Fondazione Alessandro Volta una sovvenzione con cui mi recai negli Stati Uniti.

Il 2 luglio 1939, partii da Napoli con la motonave Vulcania, sulla quale era imbarcato anche Franco Rasetti che insieme alla madre Adele Galeotti, vedova Rasetti, era diretto a Quebéc.

Quando giunti a New York il 13 luglio ci lasciammo, Rasetti e sua madre mi fecero molti auguri non per la costruzione del ciclotrone che era, dopo tutto, un problema tecnico di non troppo difficile soluzione, quanto per un altro inconfessato proposito che solo pochi amici sapevano.

Io speravo di riuscire ad approfittare del mio viaggio per porre le basi per un trasferimento negli Stati Uniti della mia famiglia, da non fare immediatamente ma entro qualche anno. L’andazzo politico dell’Italia e in particolare le guerre di Etiopia e di Spagna e il riavvicinamento sempre crescente con la Germania nazista erano fatti così gravi da non lasciar più adito alla speranza di un cambiamento di rotta. Il cedimento delle democrazie europee di fronte alla crescente prepotenza nazista (e fascista) sembrava indicare una tendenza inevitabile verso un dominio della Germania su tutta l’Europa.

Ricordo che per descrivere la situazione usavo la frase “distruzione pacifica dell’Europa” da parte dei nazisti, frase nata all’epoca dell’Anschluss (o Annessione) dell’Austria da parte della Germania di Hitler, avvenuta nel marzo 1938. La inevitabilità di questo destino dell’Europa aveva trovato, secondo molti, ulteriore conferma negli Accordi di Monaco, del 29 settembre 1938, in seguito ai quali le potenze Occidentali avevano accettato il trasferimento di alcune province cecoslovacche alla Ungheria e Bulgaria, nella fine della guerra di Spagna con la vittoria del generalissimo Franco in in pratica già decisa nel dicembre dello stesso anno e nella occupazione del resto della Cecoslovacchia da parte di Hitler attuata, senza quasi alcuna reazione da parte del resto del mondo, nel marzo del 1939. E a tutto questo bisognava ancora aggiungere l’aggressione della Finlandia da parte dell’URSS all’inizio dell’estate dello stesso anno, che anche aveva avuto luogo senza una adeguata reazione. Io, come molti altri, non avevo capito che la seconda guerra mondiale era molto vicina e che il pensare di porre le basi per un trasferimento della famiglia da attuare entro un anno o due era un sogno ridicolmente ingenuo.

Il mio giro negli Stati Uniti, era determinato dall’esistenza o meno di un ciclotrone in costruzione e funzionante.

Passai così una settimana al Pupin Laboratory della Columbia University ove ebbi la possibilità di esaminare un piccolo ciclotrone che in quel momento era smontato. Ebbi anche il piacere di rivedere I.I. Rabi con cui parlai apertamente dei miei progetti più riservati.

Femi non era a New York, ma alla Columbia University incontrai e divenni amico di Herbert Anderson, che in qualche modo, come lui diceva, mi aveva sostituito diventando il collaboratore sperimentale più vicino a Fermi nel lavoro sui neutroni che ormai era concentrato da varii mesi sul problema della fissione dell’uranio. Ritrovai anche Zinn che avevo già conosciuto nel 1936 e con cui ero rimasto in corrispondenza per la costruzione di sorgenti di ioni di deuterio da iniettare negli acceleratori.

Il 20 luglio mi trasferii ad Annarbor nel Michigan ove era in funzione un ciclotrone di 120 cm di diametro. Fermi con la famiglia si trovava in quella città per la Summer session ove teneva un corso di fisica nucleare e particellare.

Durante le due settimane che trascorsi ad Annarbor, dedicate in gran parte allo studio del ciclotrone e a parlare con le persone che lo avevano costruito, Fermi mi raccontò i suoi recenti lavori sull’influenza della costante dielettrica del mezzo sulle perdite di energia per ionizzazione da parte di un corpuscolo veloce come un mesone.

Egli mi parlò anche di una teoria che aveva cercato di fare ma senza successo per spiegare le alte energie possedute dai corpuscoli primari dei raggi cosmici.

Egli aveva pensato che, per esempio, gli atomi di idrogeno ionizzato dotati di una modesta energia cinetica sempre presenti negli spazi interstellari finissero, prima o poi, per entrare nel campo magnetico di una stella e venissero da questo deflessi con, in media, un guadagno di energia. Una successione di urti di questo tipo fra protoni o stelle se protratta sufficientemente a lungo avrebbe portato ad una specie di equilibrio termico fra queste due categorie di oggetti: i protoni, enormemente piccoli, le stelle enormemente grandi.

La teoria, come mi spiegò Fermi, non funzionava perché i protoni anche di energia non troppo elevata penetravano entro il campo magnetico fino a raggiungere il corpo della stella dove la densità della materia era così elevata da frenare completamente il corpuscolo incidente. Quando quasi dieci anni dopo apprese da Alfven, in visita a Chicago, che molto probabilmente nel nostro sistema galattico esistono nubi molto estese di materia ionizzata estremamente rarefatta e dotate di campo magnetico, pubblicò due ben noti lavori su di un possibile meccanismo di origine dei raggi cosmici sostanzialmente analogo a quello già concepito nel 1939 salvo che le stelle erano sostituite da queste nubi.

Un altro episodio che desidero ricordare fu un incontro con W. Heisenberg in casa Fermi.

Era domenica pomeriggio, forse proprio del giorno in cui ero arrivato ad Ann Arbor, e i Fermi avevano invitato varii colleghi e giovani fisici ad un piccolo ricevimento per salutare W. Heisenberg proveniente, se ben ricordo, da Berkeley e diretto in Germania.

L’argomento unico e centrale della conversazione erano gli eventi politici in Europa ove la situazione sembrava diventare sempre più scura.

Ricordo che S. Goudsmith chiese ad Heisenberg che cosa ne pensava e se non prendesse in considerazione la possibilità di lasciare la Germania e trasferirsi negli Stati Uniti.

Heisenberg disse che era sua intenzione tornare comunque in Germania. Ne seguì una discussione che se fosse stata registrata sarebbe oggi molto interessante. Qualcuno, forse Fermi, accennò al trasferimento di Rasetti a Quebéc, e qualcun altro, credo Goudsmith, accennò, assai più esplicitamente di quanto io desiderassi, al mio desiderio di emigrare in USA.

Non ricordo in modo completo le considerazioni di Heisenberg salvo un punto che mi rimase impresso nella memoria. In un discorso di natura generale egli associò la decisione di emigrare negli Stati Uniti con l’aspirazione a poter lavorare con la tranquillità indispensabile per una elevata produzione scientifica, e la decisione di rimanere nel proprio paese, con il desiderio di conservare viva una certa forma di cultura.

Non ricordo bene se Heisenberg chiarì che l’argomento poteva essere valido solo per chi non era colpito da leggi politiche o razziali del proprio paese e che anche per molti cittadini di paesi totalitari, non coinvolti direttamente era difficile non sentirsi colpiti per lo meno moralmente da leggi di questo tipo.

L’argomento tuttavia mi rimase impresso nella memoria ed ebbe certamente una influenza sulle decisioni che presi sei o sette anni dopo.

Da Chicago il 6 agosto andai a Pittsburg ove visitai i laboratori della Westinghouse che a quell’epoca erano diretti da E. V. Condon di cui fui ospite.

Negli ultimi due anni in quel laboratorio era stata costruita una macchina elettrostatica racchiusa entro un contenitore d’acciaio riempito di aria compressa a oltre 5 atmosfere, che avrebbe dovuto fornire un potenziale costante di oltre 5 milioni di volt. Erano riusciti ad ottenere 2.9 milioni di volt ma sembrava molto difficile superare questo valore.

Da Pittsburg andai a Washington D. C. in visita al Department of Terrestrial Magnetism della Carnige Institution ove già ero stato a lavorare nell’estate del 1936.

Anche in questo laboratorio avevano costruito una macchina elettrostatica ad alta pressione del tipo di quella della Westinghouse, con analoghe difficoltà e risultati.

M. A. Turve, con cui avevo lavorato due anni prima, stava allora finendo di progettare un grande ciclotrone (150 cm di diametro) cosicché io potei discutere con lui varii problemi inerenti la costruzione di tale apparecchio. Durante questa visita, oltre a rafforzare alcune vecchie amicizie ebbi il piacere di incontrare Norman F. Ramsey e Van Alen, con cui passammo molte ore a parlare di fisica, ma soprattutto della situazione politica in Europa.

Verso la fine di agosto presi un biglietto della Gray Hounds Intercontinental Bus Company per trasferirmi a tappe alla Mecca dei costruttori di ciclotroni: Berkeley.

Feci una tappa a Denver, Colorado, ove alla stazione degli autobus fui prelevato da N.H. Hilberry che mi portò in macchina a Echo Lake (3240 m.s.l.m.). Desideravo, infatti, vedere Nora e Bruno Rossi che da Manchester si erano trasferiti a Chicago nel giugno del 1939 su invito di H.A. Compton e che pochi giorni prima erano giunti in Colorado per una spedizione di studio della componente muonica dei raggi cosmici. Alla spedizione, ideata e organizzata da B. Rossi, partecipavano anche due collaboratori di Compton: N. H. Hilberry e J. B. Hoag.

Lo scopo della spedizione era di confrontare l’assorbimento di tale componente negli strati d’aria fra Mount Eveans ( ) [testo mancante nell’originale-ndr], Echo Lake (3240) e Denver, con l’assorbimento che essa subisce in strati equivalenti di grafite. Si trattava, cioè di esperienze molto simili a quelle che G. Bernardini e collaboratori stavano eseguendo in Italia circa alla stessa epoca, fra la Testa Grigia, Cervinia e il livello del mare.

Dopo la breve visita ai Rossi, durante la quale parlammo prevalentemente della situazione politica in Europa e in particolare in Italia, io ripresi il mio viaggio in autobus verso l’est e il 1° settembre 1939, attorno alle 6 del mattino, giunsi a Salt Lake City, meta di un’altra tappa del mio viaggio che aveva per scopo una diretta presa di contatto con l’interessante fenomeno della nascita e sviluppo del Mormonismo.

Quando uscii dall’autobus, ancora assonnato per il viaggio notturno, la città era pervasa dagli urli degli strilloni che ripetevano a gran voce i titoli dei giornali in cui si dava l’annuncio che le truppe tedesche, varcato il confine orientale, avevano iniziato la invasione della Polonia. La seconda guerra mondiale era cominciata!

Fortunatamente l’Italia di Mussolini sembrava incerta e per il momento almeno, non seguiva l’esempio dell’alleato tedesco. Ma questo, dopo tutto, mi appariva solo un dettaglio. In realtà non avevo proprio capito niente. L’idea di una distruzione pacifica dell’Europa, nel senso di un dominio gradualmente crescente della Germania di Hitler su tutto il vecchio continente, era ridicolmente ottimistica. La situazione era ben peggiore. Le stesse finalità del mio viaggio, per quanto di nessuna importanza da un punto di vista generale, erano improvvisamente divenute puerilmente utopistiche.

Non c’era più tempo per preparare un trasferimento della mia famiglia in U.S.A. entro qualche anno! E con ogni probabilità l’E 42 sarebbe andato a monte e l’idea di costruire un ciclotrone in Italia sarebbe diventata argomento da barzellette.

Passai un paio di giorni a Salt Lake City visitando la città, i suoi monumenti e comperando varie pubblicazioni scritte dai fondatori del Mormonismo, insieme ad altre scritte da storici non seguaci di questa forma di religione cristiana.

Ripreso l’autobus giunsi infine a Berkeley nel pomeriggio del 3 settembre 1939. Quel giorno l’Inghilterra e la Francia avevano dichiarato la guerra alla Germania.

Alla stazione dell’autobus c’era Emilio Segrè che mi portò a casa sua, ove rimasi durante tutto il mio soggiorno in quella città.

A casa dei Segrè trovai alcune lettere di Ginestra, in una delle quali mi comunicava che la Questura di Roma aveva risposto negativamente alla mia domanda di passaporto per gli Stati Uniti per lei e per i bambini.

Durante la prima colazione, la cena e le lunghe serate estive Emilio, Elfriede ed io parlavamo per ore ed ore della situazione in Europa e dei suoi futuri sviluppi, in particolare dell’atteggiamento che avrebbe preso l’Italia. Fin d’allora ci sembrava inevitabile che, prima o poi, essa si sarebbe schierata a fianco dei tedeschi.

Al Radiation Laboratory incontrai Ernesto O. Lawrence e i suoi principali collaboratori con molti dei quali diventai ottimo amico.

Ebbi così il modo di studiare in dettaglio la struttura dei due ciclotroni ivi esistenti. Quello di 90 cm di diametro usato ormai per anni e quello da 150 cm di cui scrissi nella mia relazione: “Anche i dettagli meno importanti di questo gigantesco impianto sono stati studiati in modo veramente mirabile e tale da presentare tutte le garanzie per permettere un funzionamento continuato”.

Appresi anche che W. Gentner aveva lasciato Berkeley per la Germania solo poche settimane prima e che anche per lui lo scopo principale della visita era stato uno studio approfondito del ciclotrone di Lawrence e collaboratori allo scopo di prepararsi alla costruzione di uno in qualche modo simile nel suo paese.

Incontrai per la prima volta Louis W. Alvarez che, insieme a Felix Bloch, stava facendo la ormai classica misura del momento magnetico del neutrone. Conobbi R.R. Wilson, ancora studente brillantissimo, che in quei mesi aveva inventato un sistema di “o-rings” che permetteva di comandare dall’esterno varii movimenti di parti meccaniche entro un recipiente ad alto vuoto. Ebbi anche il piacere di conoscere Miss C.S. Wu, allora “graduate student” che faceva la tesi di PH.D. sotto la guida di Emilio Segrè. Incontrai più volte R. Oppenheimer, il suo allievo Serber e varii altri teorici, e fui colpito dalla loro conoscenza dei problemi politici europei e del loro atteggiamento “radicale” nel senso americano della parola, che contrastava con quello di molti altri che, come E.O. Lawrence e R.I. Birge, rispecchiavano la posizione tradizionale dell’ambiente benpensante americano.

Ritrovai il vecchio amico George Placzek, anche in visita a Berkeley, insieme al quale attorno al 20 settembre, partimmo in macchina diretti verso l’est.

Dopo l’inizio delle ostilità in Europa le autorità americane avevano sospeso la partenza di tutte le navi per l’Italia. Io d’altra parte avevo ormai completato la raccolta di informazioni sui ciclotroni, soprattutto dopo che i colleghi del Radiation Laboratory mi avevano dato varii rapporti e disegni relativi alla costruzione dei loro acceleratori. Ginestra aspettava il nostro terzo figlio ed io cominciavo ad essere preoccupato della sospensione dei trasporti dagli Stati Uniti all’Italia. Era dunque meglio avvicinarsi a New York, porto di imbarco, e cercare di rientrare in Italia il più presto possibile.

Una repentina decisione di Mussolini poteva determinare un cambiamento della natura della sospensiva che, per il momento, sembrava essere temporanea.

Nel viaggio verso New York, al confine fra Stati Uniti e Canada vicino a Detroit, incontrammo all’ufficio canadese di controllo dei passaporti Victor ed Elen Weisskopf che con Max Delbrück erano come noi in viaggio verso Ithaca.

Placzek si fermò ad Ithaca ove io visitai un ultimo ciclotrone (piccolo ma interessante) e quindi proseguii in treno per New York. Era ormai la fine di settembre ed ero ospite dei Fermi nella loro casa a Leonia, nel New Jersey, subito al di là dell’Hudson. Alla mattina, alla prima colazione, e alla sera Enrico e Laura Fermi ed io facevamo lunghe conversazioni sulla situazione in Europa e in Italia. Ogni speranza di trasferire la mia famiglia negli Stati Uniti era dileguata con lo scoppio della guerra e il rifiuto del passaporto per Ginestra e i bambini.

In realtà, anche prima di questi ultimi eventi, le mie possibilità di inserimento negli Stati Uniti erano assai poco promettenti. Tutti gli amici americani con cui avevo parlato, da Rabi a Tuve, da Goudsmith a Condomi avevano chiesto se io ero costretto a lasciare l’Italia da leggi che mi colpivano direttamente e alla mia risposta negativa tutti avevano sottolineato le notevoli difficoltà che incontravano a trovare una sistemazione universitaria decente quelli che erano stati buttati fuori da una qualsiasi posizione universitaria in Italia o altro paese fascista in Europa. Per esempio Rossi, che da Copenaghen ove era stato fino al dicembre 1938 protetto e ospitato da Bohr, era andato a Manchester in Inghilterra con una borsa di studio per rifugiati politici che gli aveva fatto assegnare Blackett e di lì si era trasferito, nel giugno 1939 a Chicago con l’aiuto di Compton che gli aveva fatto assegnare uno stipendio di 207 dollari al mese. A Berkeley Emilio Segrè, dopo essere stato senza stipendio per oltre tre mesi, aveva cominciato a ricevere 200 dollari al mese, ossia quanto prendeva un graduate student.

Per me non c’era altra soluzione che rientrare in Italia al più presto e aspettare lo svolgersi degli eventi. Dopo la prima colazione andavo con Enrico al Pupin Physics Laboratory della Columbia University ove passammo tutta la giornata. Con tutti, in particolare con I. I. Rabi, G. B. Pegram, J. R. Dunning e tanti altri il discorso sull’avvenire era completamente cambiato rispetto a quando ero giunto a New York al principio di luglio.

Nel frattempo la sospensiva delle partenze delle navi italiane dal porto di New York era stata revocata ed io avevo ottenuto una cabina sulla motonave Vulcania in partenza il 4 ottobre. Qualche giorno prima in ascensore al Pupin Laboratory, Fermi ed io avevamo incontrato Felix Bloch, al quale Fermi aveva spiegato come io fossi in partenza per l’Italia. Bloch come incuriosito mi invitò a colazione per il 3 settembre [ottobre-ndr].

Al ristorante del St. Moritz Hotel, sul lato sud del Central Park, Felix Bloch parlò a lungo per convincermi a non imbarcarmi e restare negli Stati Uniti anche se non avevo ancora trovato un posto. Alla risposta che io non mi sentivo di lasciare in Italia Ginestra con due bambini e in attesa di un terzo, egli insistette ancora adducendo che la guerra sarebbe durata pochi mesi e che dopo avrei certamente potuto ricongiungermi con i miei. Ma io non ero assolutamente d’accordo sulla brevità della guerra e comunque non ero disposto a piantare Ginestra e bambini in circostanze così oscure ed incerte.

Allora egli cambiò completamente tono e disse che se io rientravo in Italia dovevo rendermi conto che sulle mie spalle sarebbero cadute grosse responsabilità. Tutto, o quasi tutto, quello che era stato costruito nel campo della Fisica negli ultimi anni era ormai distrutto o quasi e se qualcuno restava aveva il difficile compito di salvare almeno qualche cosa. Il discorso fu lungo, articolato non privo di spunti sgradevoli, o quasi, ma mi poneva per la prima volta nella mia vita, di fronte a problemi e prospettive che fino ad allora non avevo mai menomamente considerato.

Nel gruppo di Via Panisperna ero stato il più giovane, o quasi dato che poi era giunto Bruno Pontecorvo, e avevo sempre ritenuto che spettasse a quelli più vecchi di me prendere le decisioni e tirar le fila di una “politica scientifica”. Avevo sempre ritenuto che i miei compiti si limitassero a studiare e progettare esperienze e cercare di interpretare i risultati. Quello che diceva Bloch riguardava molte altre attività a cui non avevo mai pensato e a cui mi sentivo impreparato.

Il giorno dopo, 4 settembre [ottobre-ndr] 1939, mi imbarcai sul Vulcania per Napoli ove giunsi il 14 ottobre.

In ben pochi periodi della mia vita, forse in nessun altro, mi sono sentito così angosciato come in quei dieci giorni di navigazione.

Tornavo sapendo che il nostro gruppo era definitivamente distrutto, senza speranza di lasciare nei prossimi anni l’Italia fascista, in una Europa in cui era scoppiata una guerra, nella quale in non molti mesi, anche il nostro paese sarebbe stato buttato e, ancor peggio, dalla parte sbagliata.

Anche le considerazioni di Felix Bloch si riaffacciavano alla mia mente come un modo di dare un senso alla mia vita, ma si trattava di un modo diverso da tutti quelli che avevo sempre immaginato e così lontano dalle mie aspirazioni e capacità.

Con il passare dei mesi e degli anni quelle considerazioni mi tornarono spesso alla mente. Avevano qualche punto di contatto con la considerazione di Heisenberg sull’importanza di conservare una cultura, anche se Heisenberg, tedesco, si riferiva chiaramente al suo caso personale e alla Germania, anzi alla Germania nazista, mentre Felix Bloch, israelita nato in Svizzera ed emigrato negli Stati Uniti fin dal 1935, aveva certamente parlato in generale ma, a quanto mi pareva, stimolato dal mio caso particolare, dalla mia decisione, da lui certamente non condivisa e non approvata, di rientrare in Italia.

Molti anni dopo, quando nel 1954, Bloch venne a Ginevra come Direttore del CERN ed io ebbi così stretti rapporti con lui per molti mesi, ricordammo spesso il periodo da lui trascorso a Roma nel 1933, e il nostro incontro a New York nel 1939. Ma lui non si ricordava affatto nè di aver cercato di convincermi di restare negli Stati Uniti lasciando Ginestra e i bambini in Italia, nè le considerazioni successive sulle responsabilità che io dovevo assumermi rientrando nel mio paese.

Ma anche se fosse stata la mia mente a elaborare e ingigantire un discorso entrato nella conversazione in modo occasionale, il ricordo, fedele o inconsciamente rielaborato, di quell’incontro ha certamente costituito un punto di riferimento sul seguito della mia vita.

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