Come un ago in un pagliaio

Nella Direttiva europea 2001/18/CE un OGM è definito come «un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale». In altre parole, sono considerati OGM gli organismi il cui patrimonio genetico è stato modificato mediante tecniche di ingegneria genetica, con l’introduzione, l’eliminazione o la modificazione di uno o più geni. Per questo motivo questi organismi sono anche detti «transgenici», termine che, tuttavia, si riferisce più propriamente agli organismi che possiedono un gene di un’altra specie vivente. È importante  sottolineare che, dal punto di vista giuridico, non sono considerati OGM gli organismi ottenuti mediante metodologie considerate naturali», quali le tecniche di miglioramento genetico classico (incrocio e selezione di varietà ottenute anche con metodi di mutagenesi chimica o fisica). Un esempio è quello dato dalla varietà di grano duro Creso, che contiene una mutazione ottenuta negli anni Settanta mediante irraggiamento neutronico e impiegata da decenni nella produzione della pasta.

Gli OGM sono stati introdotti nei mercati europei a partire dal 1996. Il primo prodotto GM a comparire sui mercati inglesi è stato una purea di pomodoro. Questo alimento era chiaramente etichettato come geneticamente modificato e quindi anticipò il primo regolamento europeo in materia, il 258/97, emesso dalla appena stabilita Commissione Europea per il Novel Food Regulation. Secondo questo regolamento i prodotti contenenti OGM dovevano essere etichettati se differivano in modo sostanziale dalla loro controparte convenzionale per composizione, valore o effetti nutrizionali. Un successivo regolamento richiedeva che venissero etichettati tutti i prodotti contenenti DNA transgenico o nuove proteine. Altri regolamenti e direttive sono stati emanati a livello europeo sia per disciplinare l’emissione di OGM nell’ambiente, sia per definire le  modalità di etichettatura. In particolare, il regolamento 1830/2003/CE ha introdotto l’obbligo di etichettatura per gli alimenti contenenti accidentalmente materiale derivato da organismi geneticamente modificati in proporzione superiore allo 0,9 per cento di ogni singolo ingrediente. Questa «legge sull’etichettatura» ha lo scopo di rendere più consapevole il consumatore.

Il limite posto dalla legge ha portato alla necessità di sviluppare tecnologie in grado di effettuare rilevamenti intorno a questo valore-soglia e che permettano di monitorare l’eventuale contaminazione transgenica nei punti critici di tutta la filiera alimentare (fase in campo, raccolta, trasporto, stoccaggio, ricevimento delle materie prime e loro elaborazione, produzione e commercializzazione dell’alimento).

Di seguito sono illustrati, preceduti da alcuni cenni storici sulla transgenesi, gli aspetti metodologici relativi all’ottenimento degli OGM, necessaria introduzione alla trattazione delle metodiche analitiche, delle problematiche di ordine tecnico e dei metodi innovativi inerenti il rilevamento degli OGM vegetali.

Le tappe della transgenesi
Il primo organismo transgenico risale al 1973, anno in cui gli americani Stanley Cohen e Herbert Boyer modificarono per la prima volta il patrimonio genetico di un batterio mediante tecniche l’ingegneria genetica, introducendo un gene che conferiva la resistenza all’antibiotico streptomicina [1]. Il risultato di Cohen e Boyer fu possibile grazie a tre importanti scoperte scientifiche ottenute negli anni precedenti, tra il 1967 e il 1972. Una prima scoperta riguardava gli strumenti fondamentali della biologia molecolare, ovvero gli enzimi di restrizione, particolari proteine presenti in molte specie di batteri capaci di tagliare il DNA in modo altamente specifico e preciso. Tale scoperta, insieme a quella dell’enzima DNA ligasi, rese possibile «ricombinare» il DNA, ovvero rimescolare tra loro, mediante le operazioni di taglio (con gli enzimi di restrizione) e cucitura (con l’enzima ligasi) interi frammenti di DNA provenienti da cromosomi anche di organismi diversi. La terza tappa fu l’identificazione di sistemi per reintrodurre un DNA ricombinante all’interno di un organismo vivente. I primi esperimenti furono effettuati su uno degli organismi più semplici e più studiati, il batterio Escherichia coli. Era infatti noto che il DNA «nudo» non può penetrare attraverso la membrana dei batteri. Tuttavia, si scoprì presto che il cloruro di calcio rendeva possibile «trasformare» i batteri con pezzi di DNA esogeno, poiché lo ione Ca2+ maschera le cariche negative del DNA favorendone l’ingresso nella cellula.

Cohen e Boyer, a questo punto, pensarono di sfruttare i plasmidi, piccole molecole circolari di DNA autonome (in uno stato detto episomale perché non si integrano nel genoma), presenti naturalmente nei batteri, come vettori, per veicolare geni esogeni. I due ricercatori costruirono un plasmide artificiale ricombinante contenente un gene per la resistenza alla streptomicina e lo introdussero in Escherichia coli, rendendolo resistente a tale antibiotico. Riuscirono quindi a dimostrare che è possibile costruire plasmidi artificiali in grado di replicarsi autonomamente in Escherichia coli e che è possibile inserire e propagare in questi plasmidi un gene esogeno.

A seguito di queste scoperte i primi animali transgenici non si fecero attendere a lungo. Infatti, nel 1974, Rudolf Jaenisch introdusse un gene esogeno in topi mediante microiniezione di DNA virale in embrioni pre-impianto [2]. Egli dimostrò che il gene introdotto era stabile poiché gli animali, al termine dello sviluppo uterino, portavano quel gene in tutti i loro tessuti biologici. Successivamente, Jaenisch verificò che i topi transgenici tramandavano il gene alla progenie, dimostrando la validità del processo di transgenesi.

Il trasferimento del DNA nei vegetali
La principale tecnica di modificazione genetica delle piante si basa sulle proprietà naturali del batterio Gram negativo Agrobacterium tumefaciens di infettare molte piante dicotiledoni trasferendovi parte del proprio patrimonio genetico (Fig.1). L’infezione di Agrobacterium causa una crescita dei tessuti vegetali in modo simile a quanto accade nei tumori animali, formando la cosiddetta galla a corona o tumore del colletto [3].

La proliferazione del tessuto vegetale è indotta da un plasmide batterico, detto Ti, che viene trasferito all’interno della cellula mentre  il batterio rimane adeso all’esterno, in corrispondenza  di un’abrasione che può essere provocata dalle pratiche agricole  (come gli innesti) o da punture di insetti. Successivamente, una  specifica porzione di questo plasmide, detta T-DNA, è trasferita e integrata stabilmente nel genoma delle cellule vegetali. Questo  pezzo di DNA contiene vari geni, alcuni dei quali codificano particolari fattori di crescita necessari alla sopravvivenza del batterio, mentre altri determinano uno squilibrio nella produzione di alcuni fattori ormonali di crescita della pianta che porta alla formazione delle galle  Poiché i tumori indotti dall’Agrobacterium possono ingrandirsi a tal punto da compromettere lo sviluppo dei tessuti sani della pianta, per utilizzare il batterio come veicolo per il trasferimento di DNA artificiali risultò indispensabile innanzitutto rimuovere i geni responsabili del tumore. Nel 1983 fu prodotta la prima pianta OGM capace di crescere in presenza di kanamicina grazie all’introduzione, tramite il batterio, di un plasmide ricombinante codificante la resistenza all’antibiotico[4].

Diversamente da quanto avviene per gli animali GM, poiché le cellule vegetali hanno caratteristiche di totipotenza, la trasformazione genera cellule dalle quali possono svilupparsi piante complete in grado di riprodursi normalmente. Tuttavia, poiché molte specie di monocotiledoni di primaria importanza economica (quali riso, mais e frumento) non sono ospiti naturali dell’Agrobacterium, e pertanto non sono facilmente trasformabili con questo metodo, sono stati messi a punto altri sistemi di trasformazione, come il «metodo del cannone» o biolistico [5]. Con questa tecnica, piccole particelle (1-2 mm di diametro) vengono rivestite di DNA e «sparate» ad alta velocità in modo da farle penetrare attraverso le pareti delle cellule intatte, veicolando così il materiale genetico. Tale metodo è stato usato, per esempio, per la produzione del più noto cereale OGM, il mais Bt.

Lo sviluppo di metodiche per la trasformazione di tutte le principali specie di interesse agronomico ha reso possibile l’intervento diretto sul materiale genetico della pianta per modificare in modo mirato solo le caratteristiche desiderate. Nel caso in cui si abbia come obiettivo la modificazione di un solo carattere, lasciando inalterati tutti gli altri, il miglioramento genetico tradizionale e le tecniche di mutagenesi presentano numerosi inconvenienti: in entrambi i casi sono necessarie molte generazioni di reincrocio per eliminare i caratteri indesiderati trasferiti (o, nel caso della mutagenesi, ottenuti) insieme a quello voluto, e non sempre è possibile eliminarli tutti.

La tecnologia ha già permesso lo sviluppo di piante OGM con caratteristiche molto diversificate: varietà resistenti a malattie, a insetti dannosi, a erbicidi e a stress ambientali come la siccità, miglioramento dei processi di trasformazione microbica delle derrate agricole, produzione di vaccini e di sostanze ad attività farmacologica in planta, riduzione di allergeni naturali e decontaminazione ambientale. Di seguito sono riportati alcuni esempi di geni inseriti nelle piante OGM, alcune delle quali sono già entrate in produzione, dopo essere state vagliate dalle autorità competenti.

I geni per proteine Bt. Il batterio Bacillus thuringiensis produce naturalmente proteine ad attività insetticida, generalmente chiamate
tossine Bt. Queste tossine, innocue per altri animali (esseri umani compresi), vengono utilizzate in forma di aerosol dagli agricoltori già dall’inizio degli anni Settanta. Tali preparati di Bacillus sono estremamente specifici per le larve di alcuni lepidotteri che infestano le coltivazioni, come quella del mais: le tossine Bt, infatti, interferiscono con le funzioni dell’apparato digerente e impediscono alle larve di alimentarsi. Utilizzando tecniche di ingegneria genetica, i ricercatori sono riusciti a isolare dal Bacillus thuringiensis un gene codificante per la proteina insetticida per poi inserirlo nei genomi di  alcune piante (mais, pomodoro, patata, cotone) rendendole resistenti all’agente infestante [6].

Il sistema barnase/barstar per la maschiosterilità. La barnase è un enzima in grado di bloccare l’attività delle cellule in cui è espresso attraverso la degradazione dell’RNA. Il gene barnase è stato modificato in modo che si esprima solo in particolari cellule dette «del tappeto», precursori dell’apparato riproduttivo maschile della pianta. La proteina barstar, codificata da un altro gene, agisce invece come inibitore dell’attività della barnase. Grazie alle relazioni reciproche, il sistema barnase/barstar viene utilizzato per ottenere piante maschio-sterili che sono impiegate nella produzione di sementi ibride omogenee [7].

DNA non codificante per il silenziamento genico. Il silenziamento genico è un meccanismo molecolare che fa parte del sistema immunitario innato, presente nelle specie animali e vegetali, e che può essere sfruttato per controllare artificialmente l’espressione di uno o più geni. L’operazione consiste nell’introdurre una copia supplementare del gene che si vuole spegnere, in modo, però, che l’RNA espresso non possa essere tradotto nel prodotto proteico corrispondente. La presenza di questo RNA anomalo fa sì che l’espressione del gene a esso correlato sia fortemente ridotta, se non addirittura assente, dal momento che si impedisce la sintesi della proteina per cui codifica. Con l’uso della tecnologia del silenziamento genico si è potuto ottenere un ritardo del deterioramento dei frutti riducendo la sintesi dell’etilene, la molecola segnale che innesca la maturazione dei frutti. Si sono prodotti così pomodori con caratteristiche organolettiche migliorate e con una shelf-life più lunga che permette di raccoglierli più tardi.

Sempre mediante il silenziamento genico dell’enzima che converte l’acido oleico in linoleico nella soia, è stato possibile ottenere un olio stabile all’ossidazione, con un migliore aroma, povero di grassi saturi, con un contenuto di acido oleico superiore all’80% e un contenuto di acido linolenico e di acido stearico molto basso. Un ulteriore esempio è dato dall’inibizione del gene gbss di patata, che riduce il contenuto in amilosio e facilita la lavorazione industriale [8].

Geni per la resistenza ai virus vegetali. Geni di virus vegetali sono stati introdotti in alcune piante importanti dal punto di vista economico nel tentativo di renderle resistenti alle infezioni virali, responsabili di ingenti danni alle coltivazioni. Malgrado non sia stato ancora chiarito  il meccanismo molecolare, l’introduzione del gene codificante la proteina che costituisce l’involucro esterno di un virus (per esempio,  del virus del mosaico del tabacco) rende le piante resistenti a molte malattie virali. Tale proprietà, definita protezione crociata, è stata applicata con successo in varietà coltivate di patata, zucchina, papaia, pomodoro e tabacco. Alcuni studi indicano che è possibile rendere resistente ai virus una pianta anche mediante l’introduzione di geni  antisenso o codificanti ribozimi. I ribozimi sono molecole di RNA particolari perché dotate di un’attività enzimatica che li rende capaci  di tagliare gli acidi nucleici e, quindi, teoricamente, di inattivare in modo specifico qualsiasi gene. Risultati promettenti sono stati ottenuti per la resistenza al viroide del tubero fusiforme della patata [9].

Geni per il miglioramento della qualità nutrizionale. Sono in corso studi per migliorare la qualità dei prodotti agricoli, producendo piante GM con migliorate proprietà nutrizionali. In effetti, la produzione di alimenti «funzionali», ossia di cibi ottenuti da organismi eduli mediante integrazione di geni che producono sostanze ritenute importanti per la salute umana e animale, rappresenta un settore in notevole espansione. Un esempio di alimento funzionale è quello del Golden Rice. Questo riso, (ulteriormente modificato di recente, Golden Rice 2 [10] ) è stato arricchito in beta-carotene, precursore della vitamina A, ed è concepito per la diffusione nei paesi del Terzo Mondo, laddove la carenza della vitamina è responsabile di malformazioni e di un alto tasso di cecità.

Il rilevamento degli OGM
Tecniche basate sull’analisi di proteine. Tali tecniche richiedono l’uso di anticorpi, proteine che riconoscono e legano altre proteine codificate da un transgene. Teoricamente sono applicabili sia a campioni freschi che processati industrialmente. Condizione, ovviamente,  indispensabile è che la proteina sia presente e che non sia denaturata, cioè che non abbia subito rilevanti modifiche strutturali. Sono attualmente possibili due principali tipi di saggi, l’ELISA (Enzyme-Linked Immuno-Sorbent Assay) e quelli su strisce a flusso laterale (Lateral Flow Strips). Nell’ELISA il legame tra la proteina transgenica e l’anticorpo è evidenziato mediante l’attività enzimatica di un secondo anticorpo, diretto verso il primo. Tale attività enzimatica produce un colore la cui intensità è proporzionale alla percentuale di OGM, che viene cosi quantificato. Le strisce a flusso laterale si basano sullo stesso principio ma il risultato si produce più velocemente (pochi minuti contro le due ore dell’ELISA) ed è visualizzato direttamente su di una striscia che viene parzialmente immersa nel campione da testare. Mentre il saggio ELISA produce risultati quantitativi (con un limite di rilevamento dello 0,1 per cento), i saggi su striscia vengono di norma considerati esclusivamente qualitativi, cioè danno un responso negativo o positivo.

I metodi di diagnosi degli OGM basati sull’identificazione delle proteine hanno alcune limitazioni. Per esempio, non rendono possibile discriminare tra diversi prodotti OGM che esprimono la stessa proteina, rendendo quindi impossibile risalire all’evento di trasformazione specifico che ha originato il prodotto OGM. Inoltre, non consentono d’identificare altri elementi comuni in molti  transgeni, come le regioni geniche che, pur non codificando alcuna proteina, controllano l’espressione del transgene. Pertanto, per poter concludere che un prodotto è effettivamente non-OGM è indispensabile ripetere il saggio utilizzando anticorpi per ogni OGM esistente. Per questo motivo i saggi su proteina vengono per lo più utilizzati in analisi di routine mirate e non per effettuare screening generici. A questi metodi vengono oggi preferiti quelli che si basano sull’analisi del materiale genetico delle materie prime o trasformate.

Tecniche basate sull’analisi del DNA. La prima fase di ogni protocollo per la valutazione di OGM contaminanti consiste nell’estrazione del DNA dalla matrice da analizzare. Il DNA, infatti, deve essere purificato da altri componenti cellulari (proteine, lipidi, carboidrati) che possono influenzare il risultato della diagnosi. Al momento non esiste un protocollo di estrazione universale, applicabile a tutti i tipi di prodotti, che siano semi o foglie o alimenti complessi. Inoltre in questi ultimi (per esempio nella lecitina di soia, nell’olio, nei corn flakes, nella passata di pomodoro o nelle merendine) il DNA può trovarsi in tracce o essere fortemente degradato dalla lavorazione. Sarebbe pertanto necessario adeguare o innovare i metodi e le attrezzature.

Storicamente, i metodi di estrazione del DNA (e di altri acidi nucleici) si basano sull’utilizzo di detergenti (come l’SDS, contenuto nei normali saponi) e solventi organici (come il fenolo) che sciolgono le membrane cellulari e permettono di separare l’acido nucleico dagli altri componenti. Più di recente sono state sviluppate metodiche che utilizzano il Cetil-Trimetil-Ammonio-Bromuro (CTAB), previste anche in diversi protocolli di estrazione validati dall’Unione Europea per l’analisi di OGM.

In presenza di basse concentrazioni di sali, il CTAB forma un  complesso insolubile con il DNA, consentendo di lavare via i  contaminanti. Successivamente, viene aumentata la concentrazione di sali e aggiunto alcool, in modo da solubilizzare e allontanare il CTAB per recuperare il DNA purificato. Altri metodi impiegano colonnine monouso contenenti aggregati di particelle microscopiche di varia natura (resine, silice, farina di diatomee fossili) capaci di legare il DNA con elevata efficienza e specificità in particolari condizioni saline. L’eliminazione dei sali mediante soluzioni diluite di alcool e il lavaggio delle particelle in semplice acqua distillata consentono in fine di recuperare il DNA purificato.

Una volta ottenuto il DNA, per rilevare la presenza di modificazioni genetiche negli OGM è indispensabile utilizzare tecnologie che evidenzino direttamente il DNA esogeno. Tali metodi sfruttano la caratteristica fondamentale della molecola di DNA, ovvero quella di essere costituita da due eliche in grado di appaiarsi tra loro in modo complementare e specifico. I laboratori di diagnosi dispongono oggi di alcuni metodi di identificazione validati, messi a punto grazie al lavoro congiunto di numerosi laboratori europei coordinati dal Joint Research Centre di Ispra, in provincia di Varese. Tali metodi si basano per lo più sulla tecnica della reazione a catena della polimerasi (Polymerase Chain Reaction, PCR) [11]. La PCR fa uso dell’attività enzimatica di una proteina, detta DNA-polimerasi, presente nelle cellule di tutti gli organismi viventi, capace di sintetizzare repliche fedeli di qualsiasi molecola di DNA, «leggendo» e copiando ognuna delle due eliche, a condizione che vengano forniti nella miscela di reazione due brevi inneschi catalizzatori (primers, cortissime molecole di DNA che avviano la reazione di sintesi in un modo sequenza-specifico, perché costruite in maniera da essere complementari al DNA bersaglio, detto stampo).

L’amplificazione del DNA mediante PCR è un processo ciclico in cui ogni ciclo è costituito da tre fasi successive che avvengono a temperature diverse. Nella prima fase, le due eliche del DNA vengono separate mediante riscaldamento (fase di denaturazione). Nella  seconda fase, l’abbassamento repentino della temperatura di   reazione fa sì che gli inneschi «trovino» lo stampo e vi si appaino  stabilmente (fase di annealing). A questo punto la temperatura vien  aumentata in modo da permettere alla DNA-polimerasi di sintetizzare un nuovo filamento di DNA complementare allo stampo, a partire da  ciascun innesco (fase di estensione). Pertanto, alla fine di ogni ciclo di PCR, il numero di molecole bersaglio è teoricamente raddoppiato e si accresce in modo esponenziale. Poiché il processo di amplificazione viene ripetuto molte volte (40-50 cicli di  amplificazione), il risultato è la produzione di un elevato numero di  copie della sequenza bersaglio, sufficiente per essere rilevato a  occhio nudo mediante colorazione ed elettroforesi su gel di agarosio  (PCR qualitativa) oppure mediante tecnologie più sofisticate (PCR  quantitativa).

La tecnica della PCR, inventata a metà degli anni Ottanta, ha oggi molteplici applicazioni in campo medico, legale e industriale. Poiché la reazione di PCR viene eseguita in presenza di inneschi altamente specifici in grado di riconoscere e appaiarsi soltanto con la sequenza bersaglio (il transgene nel caso degli OGM), nella miscela di reazione si otterranno un gran numero di copie solo di quest’ultima, indipendentemente dal numero di copie iniziali o dall’eventuale eterogeneità della miscela di DNA.

A questo punto, si passa all’individuazione della sequenza bersaglio. Per essere funzionale, un transgene deve possedere almeno tre elementi genici che lo rendano attivo nel genoma ospite: il promotore, il gene strutturale e il terminatore. Il promotore e il terminatore servono come elementi regolatori (avviano e terminano la trascrizione) per indurre l’espressione, nella pianta, del gene strutturale che codifica la caratteristica desiderata, per esempio la resistenza agli insetti. L’insieme dei tre elementi è chiamato costrutto genico, che di norma ha caratteristiche uniche che lo distinguono dai geni dell’organismo ospite.

La PCR può essere utilizzata per rilevare uno, due o tutti e tre gli elementi genici, utilizzando i rispettivi inneschi. Inoltre, combinando tra di loro gli inneschi di un costrutto è possibile raggiungere maggiori livelli di specificità di analisi. Il primo livello di specificità ha come sequenza bersaglio un singolo componente del transgene, per esempio il promotore CaMV 35S o il terminatore batterico NOS o la sequenza codificante l’enzima EPSPS, che induce tolleranza all’erbicida glifosato. Poiché questi componenti sono condivisi da molti costrutti, questo tipo di analisi non permette di discriminare tra OGM autorizzati ma è utile come screening preliminare. Inoltre, la diagnosi del promotore virale CaMV 35S può portare a ottenere dei falsi positivi. Questa sequenza di DNA, infatti, proviene da un virus vegetale che colpisce diverse famiglie di piante, tra cui Solanaceae (pomodoro, patata, melanzana) e Brassicaceae (cavolo, cavolfiore, ravanello, colza). Di conseguenza, piante infettate possono risultare positive all’analisi del promotore CaMV 35S anche in assenza di transgeni.

Per aumentare la specificità della diagnosi, occorre utilizzare inneschi a cavallo di due elementi genici. Utilizzando, per esempio, un innesco derivato dal promotore CaMV 35S e un altro derivato dalla sequenza codificante l’enzima EPSPS è possibile identificare  contemporaneamente due elementi che sono stati fusi insieme nel  processo di costruzione del transgene e quindi accertarne la presenza (inneschi costrutto-specifici). Questo metodo non consente tuttavia d  identificare esattamente di quale OGM si tratti, dal momento che due elementi possono trovarsi nella stessa combinazione in più costrutti diversi o perché un singolo costrutto può venire utilizzato per trasformare più di una pianta di specie diverse o della stessa specie, dando luogo a più eventi di trasformazione indipendenti. È preferibile, pertanto, utilizzare inneschi ancora più discriminanti, capaci di riconoscere in modo univoco l’evento di trasformazione che ha generato l’OGM. È infatti noto che ogni evento di trasformazione avviene casualmente nel genoma della pianta e induce riarrangiamenti nucleotidici più o meno estesi nella regione che subisce l’integrazione del transgene. Questi riarrangiamenti sono altamente casuali ma altrettanto unici, perché generano una «firma»  univoca, rappresentata dalla sequenza nucleotidica creata nel sito di integrazione, compresa tra il genoma della pianta e il costrutto integrato. Il massimo livello di specificità viene ottenuto, quindi, usando inneschi specifici per il rilevamento di tale firma o di sequenze che fiancheggiano il punto d’inserzione.

Come sopra accennato, i prodotti di una reazione di PCR devono essere analizzati mediante sistemi che permettono di visualizzare l’incremento del numero di copie della sequenza bersaglio. L’elettroforesi su gel di agarosio è un metodo semplice e veloce che consente di fare un’analisi qualitativa del campione da testare. Le molecole di DNA prodotte dalla PCR sono sottoposte a un campo elettrico all’interno di un gel di agarosio, che funziona come una sorta di setaccio molecolare in grado di separare le molecole in base alle loro dimensioni (peso molecolare). A fine corsa, il gel viene trattato con il colorante fluorescente bromuro di etidio (che colora selettivamente il DNA) ed esaminato a occhio nudo in luce ultravioletta. L’immagine che si ottiene è costituita da una serie di bande fluorescenti il cui peso molecolare viene determinato mediante molecole di DNA di dimensioni note (standard di peso molecolare).

Un campione OGM-positivo viene identificato qualitativamente dalla presenza nel gel di una banda di peso molecolare atteso. Di norma, nell’analisi viene considerato anche un gene di controllo (gene di riferimento) specifico per la specie analizzata, che viene preferibilmente amplificato in contemporanea con il transgene bersaglio (PCR multiplex). Tale metodica presenta il vantaggio di essere molto rapida ed economica ma non fornisce informazioni circa la quantità di OGM nel campione testato. Infatti, poiché la metodica della PCR può presentare alcuni fattori limitanti, tra cui il progressivo esaurimento dei reagenti nel corso della reazione, l’accumulo del prodotto di PCR raggiunge un valore plateau oltre il quale l’incremento del numero di cicli non è seguito da un incremento del numero di copie del DNA bersaglio. Ne risulta che l’incremento del numero di molecole di DNA è effettivamente lineare soltanto entro
un limitato numero di cicli iniziali di PCR.

Dal momento che la normativa europea ha introdotto un valore soglia per la presenza accidentale di OGM nelle sementi, nelle matrici alimentari e nei mangimi e per evitare errori di quantificazione dovuti alla fase di plateau, è preferita l’analisi per PCR quantitativa. La PCR quantitativa in tempo reale è una variante della PCR classica che permette di seguire «in diretta» l’andamento della reazione. I campioni vengono continuamente irradiati da un raggio laser e la fluorescenza emessa a seguito dell’irraggiamento, proporzionale all’incremento quantitativo del DNA bersaglio, viene rilevata e analizzata ad ogni ciclo mediante un apposito programma di analisi. La chimica di reazione della PCR quantitativa real-time prevede, in genere, l’uso di una sonda molecolare di DNA a singolo filamento la cui sequenza è complementare alla sequenza del DNA bersaglio da quantificare. La sonda è pertanto in grado di riconoscere e legare la sequenza bersaglio, similmente a quanto accade per gli inneschi di cui si è parlato sopra. Diversamente da questi, però, la sonda è legata a una molecola (reporter) che emette fluorescenza quando è fisicamente allontanata da una seconda molecola inibitrice (quencher). Tale condizione si verifica ad ogni ciclo di amplificazione, in concomitanza con l’attività sintetica della DNA-polimerasi sullo stampo denaturato della sequenza di DNA bersaglio (fase di estensione). L’intensità della fluorescenza sarà quindi direttamente proporzionale alla concentrazione iniziale dello specifico bersaglio.

Problematiche
L’applicazione delle metodiche di analisi quantitativa degli OGM presenta tutta una serie di problematiche che hanno presto messo in evidenza difficoltà e incongruenze di vario genere, come quelle esistenti tra quanto richiesto dalla normativa europea sul rilevamento e la quantificazione degli OGM e la reale capacità analitica delle metodiche impiegate.

Le principali problematiche riguardano i metodi di campionamento, la scelta di materiali di riferimento (standard quantitativi) e l’effetto dei procedimenti di preparazione alimentare – dalle materie prime al prodotto finito – sulla stabilità e sull’effettiva rintracciabilità del DNA, compresa la componente transgenica eventualmente presente.

Le tecniche di campionamento rivestono particolare importanza dal momento che possono influenzare l’esito analitico. Tuttavia, ancora oggi non esiste alcuna procedura di campionamento specifica per gli OGM e anche nei laboratori più accreditati si tende ad applicare le direttive per le analisi delle micotossine. Questo implica che per prodotti non omogenei (come granaglie non sufficientemente rimescolate) la quantità di materiale analizzato deve essere piuttosto consistente e superiore alle 10 mila particelle totali (corrispondenti ad almeno due chilogrammi per i semi di soia e a tre per i semi di mais. Tale quantità si riduce notevolmente (pochi grammi) se il prodotto è omogeneo (farine, latte di soia e altri prodotti resi omogenei perché processati industrialmente).

Per effettuare una corretta quantificazione del contenuto OGM presente in un campione è necessario disporre di standard, ovvero di campioni contenenti quantità note di OGM. Sono attualmente disponibili sul mercato alcuni standard prodotti in Belgio dall’IRMM (Institute of Reference Materials and Measurement). Si tratta di farine per le quali viene certificata la percentuale in peso di farina GM. Tuttavia, in alcuni casi importanti, come quello del mais ibrido, la percentuale in peso non ha alcuna corrispondenza con l’unico dato realmente ricavabile dall’analisi quantitativa, ovvero con la percentuale di transgene rispetto al gene di riferimento. Ne risulta che, negli standard di mais, il rapporto quantificabile transgene/gene di riferimento ha un valore del tutto differente dal rapporto in peso tra le due componenti farinacee GM/non-GM. Ogni chicco di mais ibrido da cui si ricava la farina, infatti, è costituito da tre distinte parti (embrione, endosperma e cuticola) ciascuna delle quali è presente in proporzione variabile da chicco a chicco e dotata di un proprio, peculiare assetto genotipico (rispettivamente diploide eterozigote, triploide per 2/3 di origine materna e diploide omozigote materno).  Questa mancata corrispondenza di rapporti vanifica, di fatto, l’utilità  di tali standard, il cui uso è stato per diverso tempo raccomandato  dagli stessi protocolli analitici validati dagli organi scientifici di  riferimento della Commissione Europea. Fortunatamente, l’esistenza  di simili incongruenze è stata alla fine riconosciuta da tutte le parti  interessate e la Commissione ha emesso una nuova Direttiva (1). La  comunità scientifica, dal canto suo, ha acquisito le nuove raccomandazioni e puntualizzato gli aspetti tecnico-scientifici, anche in merito alle altre questioni rimaste tuttora irrisolte [12]. Infine, anche l’IRMM si è impegnato a realizzare standard certificati in termini di «genomi aploidi equivalenti» in luogo delle vecchie percentuali in peso.

Un altro problema legato alla quantificazione degli OGM risiede nel cosiddetto effetto matrice, ovvero nel fatto che la matrice del campione da analizzare può essere anche molto diversa dalla matrice dello standard, provocando efficienze diverse di amplilficazione e alterando il risultato dell’analisi. Per tale motivo, già da qualche tempo molti ricercatori si sono orientati verso la messa a punto di nuovi standard che fanno uso di plasmidi (le piccole molecole circolari di DNA autonome presenti naturalmente nei batteri, utilizzati come vettori per veicolare geni esogeni) nei quali sono inserite le sequenze dei transgeni che si vogliono quantificare. I plasmidi si stanno mostrando una valida alternativa alle farine standard, sia in termini di costi, sia in affidabilità e facilità di preparazione. Inoltre, diversamente dalle farine che permettono di quantificare pochi OGM, è possibile preparare plasmidi virtualmente per qualsiasi transgene, a patto di conoscerne la sequenza nucleotidica.

Metodi innovativi
Produzione. L’integrazione di un transgene nel genoma di una pianta è un evento casuale sia in termini di posizione che di numero di copie integrate, indipendentemente dal metodo di trasformazione. Diversamente da quello che si potrebbe pensare, l’introduzione di più copie è generalmente svantaggiosa poiché determina una cattiva espressione della nuova proteina: o troppo alta (livelli tossici per la pianta) o troppo bassa (a causa del silenziamento genico, il meccanismo molecolare che fa parte del sistema immunitario innato e che può impedire l’espressione di un gene). Per questo motivo i ricercatori sanno che devono avere un alto numero di eventi di trasformazione per ottenere il risultato sperato. Tuttavia, la comprensione dei meccanismi di integrazione sta già fornendo lo spunto per possibili strategie e presto sarà possibile ingegnerizzare efficacemente le piante in modo che integrino ed esprimano una sola
copia di un gene introdotto.

Nel frattempo, buoni risultati sono stati ottenuti sui cloroplasti, gli organuli nei quali ha luogo la fotosintesi, che costituiscono uno dei sistemi utilizzati nella produzione degli OGM di terza generazione (vedi articolo “Pregiudizio no, precauzione sì”). I vantaggi della transgenesi dei cloroplasti sono diversi. Sfruttando i processi di ricombinazione omologa e di integrazione sito-specifica (i cui meccanismi sono in parte noti) è possibile «mirare» al sito d’integrazione [13]. Inoltre, nella maggior parte delle specie vegetali, il materiale genetico contenuto nei cloroplasti non viene trasferito alla progenie attraverso la linea germinale maschile (il polline), annullando i possibili rischi di trasferimento dei transgeni verso specie selvatiche (flusso genico orizzontale).

Un altro sistema di trasformazione molto promettente che minimizza il rischio di flusso genico è l’auto-eliminazione del transgene (transgene clean-up) [14]. Questa metodica permette di produrre piante transgeniche che perdono automaticamente il transgene durante la fase di maturazione del polline. L’accorgimento sta nell’inserire nella pianta il transgene di interesse insieme al gene che codifica per la proteina ricombinasi CRE, un enzima che viene fatto esprimere solo quando la pianta produce il polline.

Rilevamento. Nuovi sviluppi in questo campo comprendono tecnologie utilizzate già da diversi anni in altri settori, come i micro- e macroarray e i biosensori. Si tratta di supporti sulla cui superficie vengono poste delle sonde capaci di riconoscere e legare il DNA o le proteine di OGM (da poche decine nel caso dei biosensori fino a decine di migliaia negli array). La differenza tra i due dispositivi sta nelle operazioni necessarie per visualizzare il risultato. Negli array è necessaria una strumentazione molto sofisticata che, tuttavia, consente di ottenere una mole impressionante di dati. Nei biosensori, invece, il riconoscimento tra sonda e bersaglio è tale da rendere immediata la lettura dell’esito, a discapito però delle quantità di informazioni ottenibili. Per quanto riguarda gli OGM, queste tecnologie sono in fase sperimentale e saranno necessari ancora diversi anni prima che diventino praticabili ed economicamente vantaggiosi rispetto alle tecniche attuali.

Infine, un’idea originale è rappresentata dal possibile uso della proteina GFP (Green Fluorescent Protein) per ottenere OGM facilmente individuabili. La GFP è una proteina presente nelle cellule della medusa Aequorea victoria che, se irradiata con radiazioni ultraviolette, emette luce fluorescente di colore verde. È uno strumento talmente utile per la ricerca in biologia cellulare e dello sviluppo, che il gene è stato introdotto praticamente in tutti i modelli batterici, vegetali e animali utilizzati in laboratorio. Nel caso degli OGM, il gene della GFP e il transgene vengono inseriti insieme, in modo che GFP funzioni da marcatore, rendendo possibile il riconoscimento di una pianta transgenica semplicemente irradiandola con luce ultravioletta [15].

Nota
(1) Raccomandazione 787/2004/EC del 4 ottobre 2004, nella quale si
legge che «I risultati delle analisi quantitative dovrebbero essere
espressi come percentuali dei numeri di copie di DNA-GM rispetto ai
numeri di copie di DNA taxon-specifici in termini di genomi aploidi».

Bibliografia

[1] COHEN S.N., CHANG A.C., BOYER H.W., HELLING R.B., «Construction of biologically functional bacterial plasmids in vitro», Proc. Natl. Acad. Sci. USA, 1973, 70, 11, pp. 3240-3244.

[2] JAENISCH R., MINTZ B., «Simian virus 40 DNA sequences in DNA of healthy adult mice derived from preimplantation blastocysts injected with viral DNA», Proc. Natl. Acad. Sci. USA, 1974, 71, 4, pp. 1250-1254.

[3] VALENTINE L., «Agrobacterium tumefaciens and the plant: the David and Goliath of modern genetics», Plant. Physiol., 2003, 133, 3, pp. 948-955.

[4] FRALEY R.T., ROGERS S.G., HORSCH R.B., SANDERS P.R., FLICK J.S., ADAMS S.P., BITTNER M.L., BRAND L.A., FINK C.L., FRY J.S., GALLUPPI G.R., GOLDBERG S.B., HOFFMANN N.L., WOO S.C., «Expression of bacterial genes in plant cells», Proc. Natl. Acad. Sci. USA, 1983, 80, 15, pp. 4803-4807.

[5] TWELL D., KLEIN T.M., FROMM M.E., MCCORMICK S., «Transient expression of chimeric genes delivered into pollen by microprojectile bombardment», Plant Physiol., 1989, 91, 4, pp. 1270-1274.

[6] ESTRUCH J.J., CAROZZI N.B., DESAI N., DUCK N.B., WARREN G.W., KOZIEL M.G., «Transgenic plants: an emerging approach to pest control», Nat. Biotechnol., 1997, 15, 2, pp. 137-41.

[7] BURGESS D.G., RALSTON E.J., HANSON W.G., HECKERT M., HO M., JENQ T., PALYS J.M., TANG K., GUTTERSON N., «A novel, two-component system for cell lethality and its use in engineering nuclear male-sterility in plants», Plant J., 2002, 31, 1, pp. 113-125.

[8] VISSER R.G., SOMHORST I., KUIPERS G.J., RUYS N.J., FEENSTRA W.J., JACOBSEN E., «Inhibition of the expression of the gene for granule-bound starch synthase in potato by antisense constructs», Mol. Gen. Genet., 1991, 225, 2, pp. 289-296.

[9] YANG X., YIE Y., ZHU F., LIU Y., KANG L., WANG X., TIEN P., «Ribozyme-mediated high resistance against potato spindle tuber viroid in transgenic potatoes», Proc. Natl. Acad. Sci. USA, 1997, 94, 10, pp. 4861-4865.

[10] PAINE J.A., SHIPTON C.A., CHAGGAR S., HOWELLS R.M., KENNEDY M.J., VERNON G., WRIGHT S.Y., HINCHLIFFE E., ADAMS J.L., SILVERSTONE A.L., DRAKE R., «Improving the nutritional value of Golden Rice through increased pro-vitamin A content», Nat. Biotechnol., 2005, 23, 4, pp. 482-87.

[11] MULLIS K., FALOONA F., SCHARF S., SAIKI R., HORN G., ERLICH H., «Specific enzymatic amplification of DNA in vitro: the polymerase chain reaction», Cold. Spring. Harb. Symp. Quant. Biol., 1986, 51, Pt 1, pp. 263-273.

[12] HOLST-JENSEN A., DE LOOSE M., VAN DEN EEDE G., «Coherence between legal requirements and approaches for detection of genetically modified Organisms (GMOs) and their derived products», J. Agric. Food. Chem., 2006, 54, pp. 2799-2809.

[13] DANIELL H., KHAN M.S., ALLISON L., «Milestones in chloroplast genetic engineering: an environmental friendly era in biotechnology», Trends Plant.Sci., 2002, 7, pp. 84-91.

[14] MLYNAROVA L., CONNER A.J. e NAP J.P., «Directed microspore-
specific recombination of transgenic alleles to prevent pollen-mediated transmission of transgenes», Plant Biotechnol. J., 2006, 4, pp. 445-452.

[15] STEWART C.N. Jr., «Monitoring the presence and expression of transgenes in living plants», Trends Plant Sci., 2005, 10, 8, pp. 390-396.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here