Come si parla il “mentalese”?

Steven Pinker
L’istinto del linguaggio
Mondadori, Milano 1997
pp 493, lire 36.000

Se il linguaggio è istintivo quanto lo è per il ragno tessere la sua tela, se tutti i bambini di tre anni sono dei geni grammaticali, se il progetto della sintassi è codificato nel nostro Dna e fissato nel nostro cervello, perché continuiamo a dire “a me mi piace”, “se l’avrei saputo” o “scendere il cane”? Questa e altre domande vengono sollevate e argomentate in “L’istinto del linguaggio. Come la mente crea il linguaggio” di Steven Pinker, direttore del Centro per le neuroscienze cognitive al Massachusetts Institute of Technology. Il volume, un brillante esempio di divulgazione scientifica non specialistica, attinge a una eterogenea enciclopedia di conoscenze, dall’anatomia all’antropologia, dalla genetica alle scienze sociali, dalla cibernetica alla primatologia, oltre ovviamente alla linguistica. Secondo l’autore, la specie umana ha un istinto ereditario del linguaggio, frutto dell’evoluzione naturale. Il linguaggio non è un artefatto culturale che apprendiamo così come impariamo a leggere l’ora o a compilare la dichiarazione dei redditi. Il linguaggio è invece un pezzo a sé del corredo biologico del nostro cervello.

In questo secolo, la difesa più famosa del linguaggio come istinto si deve Noam Chomsky, linguista del Massachusetts Institute of Technology. In polemica con il comportamentismo dominante negli anni Cinquanta, che aveva messo al bando termini come “mente” e “innato”, il linguista americano sostiene l’esistenza di una Grammatica Universale. Uno schema innato comune a tutte le lingue, cioè, che permette ai bambini di sviluppare grammatiche complesse rapidamente e senza istruzioni formali, e di dare interpretazioni coerenti a enunciati che non hanno mai sentito prima. Ma mentre Chomsky considera l’unicità dell’istinto umano del linguaggio incompatibile con la teoria dell’evoluzione, Pinker mostra come le due teorie possano convivere, mettendo in evidenza la complessità adattabile dell’istinto linguistico: nel processo di selezione naturale, potrebbero essere stati favoriti nel corso delle generazioni i parlanti più facilmente decodificabili, e gli ascoltatori più abili a decodificare i parlanti.

Ma perché i neonati non sanno già parlare? Perché, risponde Pinker, ci vuole tempo per “assemblare” una macchina complicata e delicata come il cervello umano: ed è probabile che i bambini vengano espulsi dall’utero prima che il loro cervello sia completo. In effetti, le dimensioni della testa e lo spessore della corteccia cerebrale continuano a crescere nel primo anno d’età, le connessioni a lunga distanza non sono complete fino a nove mesi, e il loro rivestimento di mielina, che agevola la velocità degli scambi di informazioni, continua a crescere durante tutta l’infanzia. Le sinapsi continuano a svilupparsi, raggiungendo il tetto massimo tra i nove mesi e i due anni, quando il bambino ha il cinquanta per cento di sinapsi in più rispetto all’adulto. L’apprendimento del linguaggio può dunque essere una funzione biologica come le altre. E quei genitori che si sgolano a parlare con i loro figli illudendosi di insegnar loro il linguaggio sarebbero ingenui quanto i !kung san del deserto del Kalahari, che pensano che si debba insegnare ai bambini a sedersi e a stare in piedi, e per questo costruiscono delle pile di sabbia intorno ai loro piccoli per mantenerli nella posizione eretta.

Inoltre l’analisi di alcune patologie linguistiche, come l’anomia, cioè l’incapacità di pronunciare alcuni nomi tipica di pazienti che hanno subìto lesioni nelle aree cerebrali del linguaggio – e che possono usare sostantivi concreti ma non astratti, oppure nomi di animali ma non di cibi, di parti del corpo ma non di frutta – ha portato a postulare l’esistenza di “geni della grammatica”, cioè di stringhe di Dna che sembrano legate con estrema specificità allo sviluppo dei circuiti che sottendono parti della grammatica.

Tutto questo non vuole decretare l’insensatezza dell’idea di apprendimento, come qualche critico ha sostenuto, ma mettere in evidenza il fatto che, senza un meccanismo innato che permetta di apprendere, non ci può essere alcun apprendimento. L’esistenza di una grammatica universale e di universali linguistici, sostiene Pinker, è inoltre suffragata da esempi tratti da lingue diverse.

Certo, parlare di istinto del linguaggio fa pensare ad una mente fatta di moduli precostituiti, anziché ad una tabula rasa su cui verrà scritta una storia. Siamo allora di fronte ad una teoria che propugna un rigido determinismo biologico? E dunque, come qualcuno obietta, ad una teoria antidemocratica ed antiegualitaria? Pinker ci dice che, in realtà, la tabula rasa è il sogno di ogni dittatore, e che, nella misura in cui i moduli mentali sono prodotti complessi della selezione naturale, la variazione genetica umana sarà limitata a variazioni quantitative, non a diversità nel progetto di base. Quindi, come la visione a raggi X del genetista molecolare rivela l’unità della nostra specie, così la visione a raggi X dello scienziato cognitivista ci rivela come “non parlare la stessa lingua” sia solo una differenza superficiale: esisterebbe un linguaggio mentale astratto, il “mentalese”, che dà forma ai nostri pensieri e che noi traduciamo, di volta in volta, nella nostra lingua madre.

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