Armi affilate contro l’Hiv

E’ il 1° dicembre e come ogni anno si tirano le somme sulle ricerche, le terapie, le vittime del virus Hiv. Certo oggi non siamo più all’anno zero contro l’Aids, ma ancora siamo lontani dalla migliore delle cure possibili. Come del resto succede spesso di fronte a virus con un genoma che non sta mai fermo, che cambia faccia di continuo e che impara a diventare insensibile all’effetto dei farmaci. Ma quali sono le cure che vengono utilizzate per cercare di fermare il virus? Sigle di molecole o nomi di terapie complicati che raramente si capiscono. Cerchiamo di capirne il significato.

Lo standard curativo attuale è stato battezzato Haart dalle iniziali delle parole inglesi Highly Active Antiretroviral Therapy, ovvero “terapia antiretrovirale altamente attiva” ed è frutto della scoperta che per ottenere i risultati migliori occorre attaccare da fronti diversi il virus. In questi casi i risultati ottenuti singolarmente non si sommano, quasi si moltiplicano. Ecco perché le terapie standard attuali sono a base di tre o quattro farmaci. “Nessuno dei farmaci disponibili sinora è in grado di eradicare l’infezione”, osserva l’autorevole periodico Medical Letter, “ma usati in associazione possono ridurre la replicazione virale, migliorare lo stato immunologico e prolungare la vita”. Il che non è poco per la verità.

I farmaci disponibili appartengono a tre famiglie, che hanno nomi quasi impossibili, gli inibitori nucleosidici e non nucleosodici della transcriptasi inversa e gli inibitori delle proteasi. Della prima famiglia circolano sette molecole, della seconda tre e della terza quattro. Parlare di tre classi di farmaci è un po’ come parlare di tre strategie di attacco al virus. I sostenitori degli inibitori della trascrittasi inversa, per esempio, sottolineano che bloccare quest’enzima è un po’ come bloccare l’interprete biochimico che permette di riscrivere l’informazione genetica dell’Rna virale nella lingua del Dna cellulare. L’interprete che quindi fa entrare l’informazione genetica virale nel circo Barnum dell’informazione genetica delle cellule.

All’anagrafe degli inibitori nucleosidici della trascriptasi inversa sono iscritti sinora zidovudina, stavudina, didanosina, lamivudina, e abacavir, ciascuna con indicazioni e limiti. Ciascuno ha indagini che ne hanno dimostrato l’efficacia in questa o quella circostanza e ha effetti collaterali particolari. Per esempio, in caso di puntura accidentale o di rapporto sessuale a rischio le indagini suggeriscono d’impiegare in coppia zidovudina e lamivudina. La zidovudina, inoltre, ha rappresentato sinora una quinta colonna della terapia. Il problema è che è sempre più facile trovare persone che non rispondono o persone curate con successo per le quali il farmaco si sta dimostrando inutile. Gli inibitori nucleotidici sono molto simili ai precedenti. I loro effetti in ricerche di base avevano fatto ben sperare, ma l’impiego sull’uomo è stato deludente in proporzione, in particolare valutando il bilancio rischio/beneficio. Per questo la Food and Drug Administration – l’ente federale statunitense di controllo sui farmaci – ha rifiutato di recente di registrare il farmaco per il trattamento delle infezioni da Hiv.

Anche gli inibitori non nucleosidici mirano alla trascriptasi inversa, come abbiamo visto, ma colpiscono con un meccanismo diverso. E comunque i loro ruolo è di complemento rispetto alle altre due famiglie di farmaci. “Nelle persone che non sono state curate in precedenza con una terapia anti-Hiv, un farmaco della famiglia”, osserva Medical Letter, “associato a due inibitori nucleosidici è in grado di ridurre i livelli dell’Rna virale e di aumentare il numero dei Cd4”, i linfociti bersaglio del virus. I farmaci della categoria sono efavirenz, neviparina e delavirdina.

Gli inibitori delle proteasi, infine, bloccano lo smontaggio delle proteine essenziali per la maturazione dell’Hiv, l’infezione di altre cellule e la replicazione virale. I membri della famiglia – saquinavir, ritonavir, indinavir, nelfinavir, amprenavir e lopinanavir – hanno rappresentato un passo in avanti importante, e molti oggi sono del parere che sia opportuno usarle, soprattutto quelle di ultima generazione, in caso di resistenza ad altri farmaci.

I risultati migliori sono stati ottenuti con cocktail di farmaci. Le combinazioni preferite sono tre (2 nucleosidi e un inibitore delle proteasi, 2 nucleosidi e un non-nucleoside, 2 nucleosidi, il ritonavir e un altro inibitore delle proteasi), ma ci sono diverse alternative. Il futuro non sembra riservare risultati straordinari, almeno a breve termine. Le molecole allo studio sono sorelle o cugine di quelle usate sinora, purtroppo con conferme e sorprese sgradite.

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