Il suicidio vitale

Jean Claude Ameisen
Al cuore della vita
Feltrinelli, 2001
pp. 440, euro 40,66

Fino agli anni Sessanta si riteneva la morte cellulare un fenomeno non fisiologico e dannoso per l’organismo. Gli studi di Alexis Carrel dimostrarono che le cellule erano entità immortali e che la loro morte era un evento patologico legato a grossolane perturbazioni dell’omeostasi, che portavano alla necrosi del tessuto colpito. Successivamente Leonard Hayflick dimostrò che le colture in vitro non si mantenevano indefinitamente ma si esaurivano spontaneamente dopo un certo numero di duplicazioni: le cellule, quindi, invecchiavano e morivano fisiologicamente. Poi nel 1972 John Kerr, descrisse un nuovo tipo di morte con caratteristiche diverse da quelle della necrosi, che chiamò, insieme a Searle, apoptosi, dal termine greco con il quale si indicava la caduta delle foglie dagli alberi o dei petali dai fiori. Tale termine venne usato sia da Ippocrate per descrivere il calo delle ossa dovuto alla cancrena, sia da Galeno per la descrizione della caduta delle croste. Proprio Jean Claude Ameisen, eminente immunologo e biologo, è tra i maggiori esperti dell’affascinante e ancora misterioso meccanismo.

Ciascuna delle nostre cellule possiede un favoloso potere: quello di autodistruggersi nel giro di poche ore. Questa attitudine al suicidio è vitale. Senza l’apoptosi, l’embrione resterebbe una massa informe. Il cervello, sarebbe troppo pieno di neuroni per funzionare in maniera corretta e il sistema immunitario, dopo aver ottenuto la vittoria sull’infiammazione, non saprebbe che fare delle sue armate di cellule specializzate, andando incontro a dei grossi problemi. “Per ciascuna delle nostre cellule, vivere, è essere riusciti a impedire, per una volta, il suicidio”. L’apoptosi permette in ogni istante al nostro corpo di modellarsi, di ricostruirsi e di adattarsi, ma si tratta di un territorio su cui può essere pericoloso avventurarsi, perché non è decisamente un tema di ricerca comune.

La nozione di “suicidio cellulare” è recente. Questa nuova visione ribalta l’idea che noi abbiamo della vita, permettendo una reinterpretazione delle cause della maggior parte delle nostre malattie e del processo di invecchiamento. Essa apre nuove vie di cura (è il caso di gravissime malattie come l’Alzheimer, il Parkinson e il cancro) e, infine, si è sempre più convinti che essa sia la chiave per spiegare l’evoluzione della specie. All’immagine antica della morte come di una “falciatrice brutale” si contrappone un’immagine radicalmente nuova, quella di uno scultore nel cuore del vivente, che fa emergere la sua forma e la sua complessità. Ciò che propone il libro è un viaggio alla scoperta di una delle più belle avventure della biologia del nostro tempo che ci permette anche di provare quanto la scienza può talvolta entrare in risonanza con i nostri interrogativi più intimi e più antichi. La scienza sa, qualche volta, raccontare delle belle e vertiginose storie da leggere e rileggere tutte d’ un fiato. L’autore ha realizzato un vero capolavoro fornendoci un testo scientifico che si legge come un romanzo avvincente tra i più belli degli ultimi anni; con un talento pedagogico notevole, senza usare un vocabolario tecnico, mette alla portata del profano le scoperte recenti in questo campo. Lavoro notevole, che ci porta a riflettere sulla vita e sulla morte, trascinandoci in una vertiginosa riflessione filosofica, servendosi di una esposizione limpida ma dotta.

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