Batteri cercatori d’oro

    Sfruttando la naturale capacità di mineralizzare l’oro disciolto nell’ambiente del batterio Cupriavidus metallidurans, un gruppo internazionale di ricercatori ha geneticamente modificato il microrganismo in modo che segnali la presenza del prezioso metallo. La singolare capacità del batterio è raccontata sulle pagine dei Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), da Frank Reith dell’Università di Adelaide e il suo team. 

    Stando allo studio, l’oro si presenta raramente allo stato nativo, sotto forma di pepite o pagliuzze; più frequentemente è associato con altri metalli, spesso tossici per il Cupriavidus metallidurans come i composti contenenti zolfo, che inibiscono le funzioni enzimatiche del batterio. Il microrganismo in questo caso reagisce attivando un gruppo di geni “detossificanti”, con il compito di produrre un enzima in grado di precipitare l’oro in forma metallica, innocua, separandolo dalle altre sostanze che vengono eliminate. La presenza di simili  microrganismi in alcune miniere australiane molto distanti tra loro, era già stata osservata dagli stessi ricercatori anni fa. Non era ancora chiaro, però, se avessero un ruolo nella formazione dei depositi di questo metallo, né quale fosse.

    Una volta scoperto il meccanismo di azione del batterio, Reith e  Gregor Grass dell’Università del Nebraska-Lincoln (Usa), coautore dello studio, hanno cercato un modo di “utilizzare” questa straordinaria abilità. I due ricercatori hanno modificato geneticamente C. metallidurans per fargli emettere una luce rilevabile con uno spettrometro portatile ogniqualvolta attiva i geni detossificanti, ovvero quando è in presenza del biondo e prezioso metallo.

    “Sebbene già si sapesse che alcuni batteri possono incrementare la produzione d’oro”, ha commentato John Stolz, microbiologo ambientale della Bayer School of Natural and Environmental Sciences presso l’Università di Duquesne (Pennsylvania, Usa), “questa è la prima volta che viene descritto il modo in cui lo fanno”.  (a.d.)

    Riferimento: Pnas doi: 10.1073/pnas.0904583106

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