A cavallo di un Hiv

È uno dei più agguerriti killer mondiali. In parte domato in Occidente, grazie a sofisticate e costose terapie, imperversa nei paesi in via di sviluppo, infettando milioni di vittime e uccidendone centinaia di migliaia. È forse, assieme alla fame, il maggiore responsabile di un altissimo numero di bambini orfani e indigenti. Parliamo dell’Hiv, assurto agli onori della cronaca negli anni Ottanta e presto diventato una delle maggiori minacce epidemiologiche del secolo. Seppur incapace di debellarlo, l’umanità, nella persona di alcuni scienziati all’avanguardia, è riuscita a capirlo, sezionarlo e metterlo al servizio della salute per curare altre malattie mortali, come i tumori. Sì, perché l’Hiv è una delle acquisizione più recenti tra le batterie dei ‘vettori’ che i ricercatori utilizzano per la terapia genica. Ovvero per modificare il programma genetico di cellule e organismi e dunque indurli a determinati comportamenti. Ora, proprio utilizzando il famigerato virus, nel laboratorio di Terapia Genica dell’Istituto per la Ricerca e la Cura del Cancro di Candiolo Luigi Naldini e i suoi collaboratori Michele De Palma, Mary Anna Venneri e Cristina Roca hanno messo a punto una versione “intelligente” della terapia, capace di puntare diritta al tumore e di tagliargli i rifornimenti. Negli anni Novanta, Luigi Naldini, noto nell’ambiente della ricerca come Igi, giovane ricercatore torinese (allievo di Paolo Comoglio, direttore dell’Ircc di Candiolo, e ora in “partenza” per il San Raffaele di Milano) esportò il proprio cervello in quel di San Diego, California, al Salk Institute, per mettere a punto i primi vettori lentivirali per terapia genica. Pubblicò il suo modello su Science nel 1996 e fu una rivoluzione, che dovette però passare da molte fasi di messa a punto prima di arrivare su Nature Medicine di questa settimana. Il nuovo lavoro combina la terapia genica con il trapianto di midollo osseo, in particolare sfrutta cellule staminali modificate geneticamente mediante il vettore Hiv, una versione addomesticata e non patogena del virus. Queste rappresentano la riserva costante di cellule immature in grado di generare tutte le cellule mature del sangue. Utilizzando il lentivirus Hiv come vettore, quindi, i ricercatori torinesi hanno introdotto stabilmente un gene terapeutico in staminali prelevate dall’organismo. Queste sono state poi reintrodotte nel midollo dove, riproducendosi, hanno trasmesso il gene terapeutico, come se fosse un gene cellulare, alla loro progenie. Una volta chiarito il “sistema di trasporto” bisogna identificare anche il bersaglio. In questo caso Naldini ha scelto l’angiogenesi, lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni. Senza apporto di sangue infatti non si sviluppano le neoplasie: il fenomeno noto come neo-vascolarizzazione tumorale è oggetto da diversi anni di grande interesse da parte della ricerca internazionale. (Nello stesso numero di Nature Medicine, un altro studio condotto in parte da Jennifer Doll e Susan Crawford di Chicago ha scelto l’angiogenesi come target, scoprendo che una particolare proteina, Pedf, può inibire l’iperplasia prostatica e il tumore alla prostata agendo, anche in questo caso sull’apporto dei nuovi vasi sanguigni, che permette lo sviluppo di lesioni preneoplastiche e neoplastiche). La novità del lavoro realizzato dal gruppo di Naldini è rappresentata dal fatto che le cellule staminali sono modificate con un vettore virale in grado di produrre la proteina terapeutica solo quando queste raggiungono il tumore e inizia la formazione dei vasi sanguigni, indispensabili alla sua crescita. La “freccia genica” di Naldini e collaboratori, infatti, si attiva esclusivamente in una popolazione di cellule del sangue, specificamente coinvolta nella formazione dei vasi tumorali. Queste cellule, fino a oggi non ancore descritte, battezzate cellule Tem (Tie2 expressing mononuclear), migrano dal midollo osseo, attraverso il sistema circolatorio, alla massa tumorale in accrescimento e, attraverso un meccanismo non ancora chiarito, promuovono la formazione dei vasi sanguigni del tumore. Introducendo nelle cellule staminali del topo un gene terapeutico in grado di indurre il suicidio cellulare, i ricercatori hanno eliminato le cellule Tem e ottenuto l’inibizione dell’angiogenesi e della crescita tumorale, in assenza di tossicità. Un simile risultato non poteva essere ottenuto senza un vettore attivo esclusivamente nelle cellule Tem, in quanto l’espressione di un gene per il suicidio cellulare in tutte le cellule del sangue causa seri danni all’organismo. Dunque un segugio molto ben addestrato, questo Hiv torinese, che sceglie le cellule giuste, al momento giusto per colpire. E, al contrario di ciò che fa in Africa, non colpisce per uccidere, ma per salvare vite umane ammalate di tumore. Una rivalsa dell’essere umano sul potere devastante delle epidemie. *Direttore Laboratorio Oncologia Molecolare – IST Genova

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