A pranzo da nonna per un fegato sano

Più del 15 per cento degli italiani tra i 12 e i 65 anni soffre di disturbi al fegato. Ma solo metà di questi appartiene alle categorie a “rischio”, e cioè fa abuso di alcolici o è affetta da virus epatici. Per il restante cinquanta per cento si tratta di persone apparentemente sane, che non presentano sintomatologie particolari e che, solo dopo analisi specifiche, scoprono di avere danni al fegato. Un fenomeno, quello dell’eccessiva concentrazione di enzimi epatici nel sangue di origine non virale in forte aumento negli ultimi anni. Che spinge ora gli esperti a lanciare un allarme: queste forme di malattie del fegato nei prossimi anni interesseranno una fetta sempre più vasta di popolazione. A studiare le nuove forme di malattie epatiche non virali è adesso un’équipe di ricercatori dell’Università Federico II di Napoli e dell’Istituto superiore di sanità, che da pochi mesi hanno avviato una ricerca i cui risultati verranno resi noti già a luglio, in occasione del convegno internazionale di Saint Vincent.

“Le nuove malattie epatiche non virali sono dovute, nella maggior parte dei casi, a un’errata alimentazione e ad abitudini di vita poco salutari”, spiega Nicola Caporaso, coordinatore della ricerca presso il dipartimento di Scienza degli alimenti dell’università campana. “Si tratta di patologie che, una volta individuate, si risolvono facilmente, di solito seguendo un regime alimentare più equilibrato. Ma se vengono trascurate, possono avere conseguenze pesanti sull’organismo”.

Il rischio di sottovalutare queste patologie è tutt’altro che remoto. Perché in molti, proprio a causa dell’assenza di sintomi, ignorano di essere affetti dalla malattia e perciò non seguono una terapia adeguata. “Da un nostro precedente studio era emerso un dato allarmante”, prosegue Caporaso. “Su un campione di diecimila donatori di sangue, il 20 per cento presentava alterazioni degli enzimi epatici, le transaminasi”. E spiega: “Questi soggetti, negativi ai test sul virus dell’epatite, rivelavano tuttavia valori delle transaminasi al di fuori della norma. Si trattava generalmente di persone obese o in sovrappeso, ma che non sospettavano minimamente di avere problemi di salute, tanto da essere donatori volontari di sangue”.

Ora i ricercatori intendono scoprire se i dati della prima ricerca sono confermati a livello nazionale. E perciò hanno deciso di allargare lo studio a un campione statisticamente più significativo con volontari di Torino, Verona, Firenze, Roma, Napoli e Palermo. Oltre alla diffusione del fenomeno, la nuova ricerca aiuterà a definire le cause e la storia naturale di queste nuove patologie.

Secondo i medici, si tratta comunque di un fenomeno da mettere in relazione con il cambiamento delle abitudini alimentari degli ultimi cinquant’anni. Dal dopoguerra a oggi, infatti, si è passati da un’alimentazione povera, ma sana e ricca di fibre e vitamine, a una dieta ipercalorica. Questo maggiore consumo di grassi, accompagnato da uno stile di vita sedentario – avvertono gli specialisti – rischia di causare una epidemia di obesità, come già avvenuto nei Paesi anglosassoni. Perciò l’invito è di tornare alla “dieta della nonna” e di riscoprire le nostre abitudini alimentari mediterranee, in attesa di conoscere gli esiti delle ricerche ancora in corso sul ruolo benefico di alcuni cibi – per esempio quelli ricchi di sostanze antiossidanti – nella prevenzione dei danni epatici.

Una corretta educazione alimentare potrebbe invertire la tendenza negativa che si verifica proprio mentre il mondo occidentale si avvia a cancellare gradualmente le epatiti di tipo virale. Si prevede, infatti, che nei prossimi venti anni le malattie epatiche correlate a infezioni virali, come l’epatite B e C, diminuiranno progressivamente, grazie a una migliore profilassi e alle nuove cure

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