All’alba del post-fordismo

In questo inizio di secolo si consumano gli ultimi atti del passaggio da un mondo del lavoro piuttosto uniforme, com’era quello del Novecento, a un universo di lavori assai diversificati che si diffondono in senso spaziale e si disperdono in senso temporale, e che sono svolti da soggetti i quali operano alle dipendenze oppure in modo autonomo o con posizioni miste. Cresce inoltre il numero e cala la dimensione dei luoghi dove si lavora, per cui si trovano ovunque spezzoni di lavoro e persone che lavorano; crescono inoltre i tipi di orario e calano le sincronie fra gli orari, per cui si trovano sempre più persone che lavorano in ore insolite e con calendari complicati, anche nella stessa sede.

Tutto ciò comporta effetti positivi come la de-massificazione del lavoro, ma può anche comportare conseguenze che pre-occupano i sindacati, come la de-solidarizzazione dei lavoratori. Lo scenario che si prospet-ta è quello di una “società dei lavori”, parecchi dei quali cangianti o sfuggenti, anziché di una “società del Lavoro” centrata su un’idea e su un profilo di pienezza e di stabilità quale l’Occidente capitalistico aveva avuto nel secolo scorso. E’ una transizione lunga che sembra passare quasi inavvertita perché non mostra cesure nette. I suoi sviluppi, resi necessari dalle trasformazioni dell’impresa e resi possibili dalle innovazioni della tecnologia, erano del resto insiti nel medesimo meccanismo di creazione e di soddisfazione dei bisogni. E’ come l’automobile, che in un secolo è cambiata moltissimo ma continua ad avere un motore, una carrozzeria, un volante e delle ruote. Infatti non è una transizione riconducibile a variabili esplicative quali il liberismo e le privatizzazioni, che potrebbero anzi esserne la conseguenza; né a tendenze quali la globalizzazione o la finanziarizzazione, che non hanno generato ma soltanto accelerato tali sviluppi.

E neppure alle scelte di specifiche forze sociali o leadership politiche, le quali non avrebbero comunque potuto mutarne la componente strutturale e l’ampio respiro storico. Quel che cambia deriva soltanto in parte dall’aver messo congegni e apparati nuovi al posto di quelli vecchi. L’aspetto più nuovo è l’integrazione orizzontale fra mercati, dimensioni e tecnologie, che accresce la reattività delle imprese rispetto alle incostanze e alle turbolenze del mercato. Del resto le tecnologie odierne sono tali che ciascuna impresa può trovare soluzioni proprie e peculiari per risolvere il medesimo problema.La crisi del modello taylor-fordistaDopo avere portato la produttività del lavoro e la produzione di massa a livelli tali da elevare nettamente i redditi e da inondare il mondo di beni e di servizi, negli anni Settanta il modello di pro-duzione e di consumo taylor-fordista è entrato in crisi e ha iniziato a evolvere verso un modello chiamato per convenzione post-fordista.

L’inizio si può far coincidere con il primo shock petrolifero, avvenuto nel 1973, anche se i primi segnali di crisi erano comparsi già in precedenza nell’industria automobilistica, quella stessa che aveva trainato lo sviluppo capitalistico per tutto il No-vecento. Alle radici della crisi stavano le crescenti rigidità nei rapporti che l’impresa intratteneva con il mercato e con il lavoro. Una delle soluzioni cui si fece invano ricorso fu l’intensificazione tecnologica e il ricorso a una “robotizzazione” spinta. Tuttavia la meccanizzazione e l’automatizzazione non erano sufficienti a soddisfare la variabilità quantitativa della domanda e la diversificazione qualitativa dell’offerta, ormai necessarie sul mercato.

Oltretutto richiedevano notevoli immobilizzi di capitale e accrescevano le rigidità anziché ridurle. Il problema non era il risparmio di lavoro bensì la gestione dell’impresa nei suoi nuovi rapporti con il mercato, per cui occorrevano soprattutto innovazioni organizzative che rendessero più versatili sia l’impresa sia il lavoro. La via d’uscita dalla crisi del taylor-fordismo è venuta da un nuovo paradigma industriale che pone la propria dinamica nelle mani del cliente. Un esempio è il procedimento just-in-time. Quando il rappresentante di commercio che visita i negozi da rifornire teletrasmette l’ordine del rivenditore, un calcolatore aggiorna istantaneamente i dati di tutti i materiali e i componenti necessari, e invia dettagliati impulsi all’amministrazione, ai fornitori, ai reparti e ai servizi perché provvedano a fabbricare, assemblare, inscatolare, fatturare e spedire al più presto il prodotto a destinazione. Ciò capovolge la tipica logica del flusso taylor-fordista: anziché essere spinta dall’alto, la produzione è tirata dal basso.

Si dice che “l’impresa respira” proprio perché tutto, a cominciare dal fabbisogno di lavoro, si allinea in tempo reale agli ordinativi pervenuti. L’evolversi del modo di produrre dalla mass production alla lean production è quindi un grande cambiamento nella storia sociale. La necessità di rispondere a ogni oscillazione del mercato pone infatti all’impresa ineludibili bisogni di flessibilità operativa, costringendola a farsi leggera, agile e snella. Ciò ribalta la logica delle economie di scala e dell’integrazione verticale, tant’è vero che diminuisce la dimensione media dell’impresa per numero di addetti, aumenta la quota degli occupati nelle imprese minori sul totale, e il sistema delle imprese si sta disponendo e articolando in orizzontale. La maggiore flessibilità operativa e la maggiore reattività agli shock, tipiche della piccola dimensione, sono state favorite dalle tecnologie della comunicazione, che hanno offerto mezzi e opportunità per ridurre il divario strutturale e il dislivello competitivo rispetto alla grande dimensione.

Ciò alimenta una demografia d’impresa inopinatamente vivace, che connota tutto lo scenario dei cambia-menti. E la globalizzazione ha accelerato su scala mondiale questi processi, che non hanno investito soltanto il sistema delle imprese manifatturiere private ma un po’ tutte le attività economiche di mercato. Dopo avere trasformato il modus operandi del taylor-fordismo e abbandonato la logica della produzione di massa per reagire alle difficoltà e alle turbolenze, le imprese chiedono la massima flessibilità del lavoro e la massima de-regolazione del mercato del lavoro. Ciò sta mettendo in causa il modello di regolazione sociale (chiamato da taluni “compromesso fordista-keynesiano”) che compensava o risarciva la piena subor-dinazione con la piena tutela.

A cavallo fra anni Sessanta e anni Settanta ci fu chi pronosticò una cesura nella continuità organizzativa e nella dinamica imprenditoriale fino ad allora assicurate dalla grande impresa e dalla produzione di massa. Sia la previsione di una “èra del discontinuo” sia lo slogan small is beautiful si sarebbero avverati in due Paesi molto diversi: negli Stati Uniti, dalla fungaia di piccole imprese sorte a Silicon Valley per iniziativa di imprenditori di nuovo tipo, dotati di scarsi capitali ma con idee avanzate; in Italia, dai distretti industriali dove una nuova leva di imprenditori “venuti dalla gavetta” trasformava tante fabbrichette in sistemi produttivi a rete. Mentre per le imprese start-up l’incubatore era stato il sapere high-tech dell’università di Stanford, per quelle della Terza Italia era stata la “specializzazione flessi-bile” su nicchie di mercato; in ambedue i casi la principale risorsa dello sviluppo locale stava dunque nella capacità di valorizzare le conoscenze, le competenze e le sub-culture offerte dal contesto.

Quelle esperienze anticiparono alcuni requisiti del lavoro post-fordista, basato su una combinazione di autonomia individuale e di cooperazione collettiva. La dimensione più efficiente degli impianti e il minor numero di addetti per unità aziendale avevano abbattuto infatti i tipici effetti di concentrazione e di massificazione della fase taylor-fordista, ma soprattutto avevano reso più elastico l’apparato produttivo e un po’ più appagante il modo di lavorare. In tal modo la piccola impresa contrassegnò il futuro del lavoro, così come avevano fatto quella media nell’Ottocento e quella grande nel Novecento.A livello aggregato, il ritorno dell’imprenditore e la rinascita della piccola impresa sono stati evi-denziati nelle statistiche a partire dagli anni Ottanta. Anche se non erano mai spariti dalla scena dei paesi industriali, compresi gli Stati Uniti, la loro inattesa ricomparsa provocò all’inizio incredulità e sconcerto perché nell’impresa taylor-fordista il numero degli addetti e il peso dei manager non po-tevano che crescere: da un lato c’era la legge delle economie di scala e dall’altro il passaggio “dalla proprietà al controllo”.

Oltretutto, queste novità si affacciavano con tratti non sempre accettabili, tipo economia sommersa e lavoro nero, persino dove il mondo del lavoro era ben organizzato e rappresentato, come in Italia a Carpi o a Sassuolo. Poi, nel giro di un ventennio, paesi con una struttura produttiva completamente diversa come l’Italia e l’Inghilterra hanno superato i tre milioni e mezzo di imprese, due terzi delle quali costituite da ditte individuali: tale è stato l’abbattimento delle dimensioni medie aziendali e la moltiplicazione degli imprenditori come ceto. Il passaggio di staffetta è iniziato quando molte grandi imprese, messe alle strette dagli aumentati costi del greggio e delle retribuzioni, e dalla diminuita governabilità degli stabilimenti e dei mercati, hanno affidato all’esterno, oppure ceduto ad altri, determinate operazioni o lavorazioni. Tanto l’affidamento all’esterno quanto la cessione ad altri hanno determinato un calo della dimensione aziendale, sia procurando più lavoro alle imprese minori a cui quella maggiore già ricorreva, sia sti-molando la nascita di nuove imprese, spesso incoraggiate e talvolta aiutate per l’occasione.

A questo passaggio di staffetta sono poi subentrati massicci smagrimenti di personale (o riduzioni di taglia: downsizing), che negli Stati Uniti hanno investito quasi tutte le 1000 imprese-leader censite dalla rivista Fortune. Le dimensioni aziendali medie sono altresì diminuite nelle imprese che hanno de-localizzato una parte delle proprie attività in stabilimenti o impianti situati in altri paesi. Le “cittadelle del lavoro” continueranno quindi a diminuire e i luoghi di lavoro a snellirsi. Infatti dalle grandi fusioni e dalle grandi acquisizioni nascono gruppi enormi ma strutturati su imprese più pic-cole di quelle che avevano dominato il secolo scorso: negli Stati Uniti, la società di lavoro tempora-neo Manpower vanta più dipendenti e più sedi del gigante automobilistico General Motors. Del resto le nuove cattedrali del consumo, cioè gli ipermercati e i mall che attorniano le città, hanno pochi addetti pur coprendo volumetrie maggiori delle vecchie cattedrali della produzione, gli stabilimenti storici che oggi diventano musei o università.

Il modello post-fordista ha richiesto a imprenditori e manager un diverso modo di gestire e di intendere l’impresa e la sua stessa natura. L’impresa – ha detto Michel Crozier – deve “ascoltare”, deve “apprendere”. Molte sono infatti le novità, a cominciare dagli schemi di funzionamento. Le nuove forme di organizzazione favoriscono l’autonomia e al tempo stesso la comunicazione delle parti, ribaltano i rapporti fra funzioni “di produzione” e funzioni “di servizio”, mutano le relazioni con l’indotto dei fornitori, con il contesto territoriale e con le istituzioni finanziarie. Ma la novità cruciale è un’altra. Il processo di integrazione, che per oltre un secolo era stato realizzato dentro l’impresa, ha invertito la direzione di marcia: l’integrazione si sta ora realizzando tra le imprese.

Ciò ha posto fine alla separatezza organizzativa e produttiva dando all’insieme una maneggevolezza e una elasticità mai viste. Mentre le imprese minori cercano di strutturarsi localmente come se fossero una sola grossa impresa, quelle maggiori si ristrutturano come se fossero un insieme di piccole imprese. Beninteso, tutte quante allacciano anche relazioni con altre imprese, esterne al contesto locale o nazionale. L’impresa ha cominciato a specializzarsi, aprendosi ad apporti esterni anch’essi specializzati. Cessa quindi di essere autarchica e concentra gli sforzi su quel che le riesce meglio e le rende di più: anziché fare, compra. Quindi il concetto di servizio diventa una coordinata di produzione. Del resto, chi potrebbe oggi chiedere all’impresa di fare da sé, di produrre in casa tutto il possibile con mano d’opera propria, come faceva ieri? La Fiat di Melfi è una società chiamata Sata che produce in pro-prio, per il modello “Punto”, appena sette componenti su 100: tutto il resto, pari a due terzi del valo-re dell’auto, viene fornito dall’indotto locale oppure acquistato sul mercato esterno.

Conciliare la variabilità della domanda con la stabilizzazione della mano d’opera è difficile per tutte le imprese, grandi e piccole. Ognuna riduce quindi al minimo il personale diretto alle proprie dipendenze (core-workers) e impiega mano d’opera indiretta fornita temporaneamente da ditte esterne (peripheral-workers). Quelle maggiori scorporano inoltre questo o quel ramo di attività per cederlo ad altre so-cietà, talvolta create o aiutate ad hoc e spesso operanti in modo stabile dentro l’impresa stessa. Tutte si dotano di personale stabile e di personale fluttuante: tanto l’impresa maggiore, che di solito è il committente principale, quanto le imprese sussidiarie, le ditte di pulizia, perfino le aziende “in grigio” o “in nero”.

Così, entro le stesse mura possono operare gomito a gomito lavoratori diretti e indiretti, stabili e fluttuanti, facenti capo a società diverse. All’indotto esterno si aggiunge insomma un indotto interno. Questa disarticolazione, chiamata anche “terziarizzazione”, ha conseguenze che preoccupano i sindacati perché possono generare disparità di trattamento fra lavoratori operanti nella stessa impresa o addirittura nella stessa sede. Ne fanno le spese i dipendenti “ceduti” dall’impresa principale a una esterna, e magari chiamati a svolgere il vecchio lavoro; o i lavoratori esterni “prestati” da un’impresa fornitrice e chiamati a svolgere una delle attività rimaste all’impresa principale. L’era della partecipazione direttaAnche la struttura dei mercati del lavoro si complica, introducendo elementi di diversifica-zione che vanno al di là delle segmentazioni già conosciute e che delineano scenari sia di “atomizzazione” sia di “individualizzazione”.

Ciò deriva dalla crescente selettività dal lato della domanda, sia in termini di flussi giacché le assunzioni si fanno col contagocce, sia in termini di requisiti, tant’è vero che il tipico motto del Novecento, “Non siete pagati per pensare”, è stato ormai sostituito dallo slogan “La qualità dipende da voi”. Ma ciò deriva anche da una maggiore selettività dal lato dell’offerta, per motivi sia oggettivi quali l’innalzamento dell’istruzione e la lievitazione dei redditi, sia soggettivi quali la maggiore riluttanza a spostarsi e la maggiore attenzione allo status. Ad esempio gli italiani rifiutano i lavori duri, rischiosi, sporchi o umili, svolti oggi dagli immigrati (e ieri dagli italiani stessi, quando emigravano).

In questo caso l’offerta proveniente dai paesi più poveri può rendere meno tesi i mercati del lavoro, anche se non è facile regolare i flussi migratori in base della domanda. L’incontro è reso inoltre difficile dalla diversa influenza del contesto, giacché la domanda tende a territorializzare i profili professionali e le competenze richieste mentre l’offerta tende a socializzare gli stili e le aspettative di vita, dal diverso orientamento alle opportunità, giacché per l’impresa con-tano la flessibilità e il turnover mentre per il lavoratore contano la stabilità e le garanzie, e infine dai diversi ostacoli incontrati nelle proprie scelte, giacché l’impresa trova difficile fare previsioni men-tre il lavoratore trova difficile orientarsi. A livello macro il convoglio delle professioni si allunga e si fraziona: un turnover assai vivace sta creando più mestieri di quanti ne distrugge, con prospettive di carriere più discontinue. Forse anche per questo non sembra esserci una netta ascesa della professionalità media ma piuttosto una gamma più estesa di skill, resa necessaria dall’intreccio fra domande e tecnologie vecchie e nuove.

Infatti servono professioni nuovissime come quelle dell’informatica e professioni stagionate come quelle della carpenteria. Insieme a knowledge workers e specialisti di e.business, continua infatti a esserci un assoluto bisogno di chi costruisce stampi, di chi salda ad elettrodi, di chi affetta le carni, di chi assiste gli anziani, di chi custodisce le banche. Tutto ciò crea dei gap o aumenta le incoerenze fra sistemi professionali e sistemi produttivi. A livello micro l’atomizzazione del mercato e l’individualizzazione dei profili esasperano il mi-smatch qualitativo e quantitativo perché, a prescindere dall’efficienza o meno dei servizi all’impiego, pubblici o privati, i tradizionali canali di selezione e di reclutamento della mano d’opera non sembrano più bastevoli e neppure adatti.

E la caotica e disfunzionale proliferazione di siti Internet per la ricerca del lavoro, o del lavoratore , dà conto assai più del problema che della so-luzione. Così, quote consistenti di assunzioni passano attraverso le reti informali attivate dai lavora-tori stessi, dalle loro famiglie e dai loro conoscenti. Ciò rende più forti quei sistemi di relazione che Mark Granovetter ha chiamato “legami deboli”, e più deboli quei sistemi allocativi che, istituzionali o mercantili, un tempo erano forti. Sia le organizzazioni dei lavoratori sia quelle degli imprenditori trovano pertanto difficile captare, registrare, veicolare e rappresentare questa pulviscolare diversifi-cazione fra i lavori. I governi stessi stentano a promuovere in modo sistematico politiche attive di orientamento, di formazione e di riallocazione del lavoro. Ne risentono quindi gli assetti delle rela-zioni industriali, le tradizioni e le prassi della partnership, e perfino i rapporti fra le sfere della con-trattazione e della legislazione. Le novità più cospicue sono però altre, e vengono da movimenti profondi che investono innanzitutto la natura della prestazione, cioè la qualità del lavoro. Con quali effetti? I con-tenuti si fanno meno manipolativi e più cognitivi, i compiti tendono a essere meno esecuti-vi ed estranianti, più cooperativi e coinvolgenti, e le conoscenze sono in genere meno spe-cialistiche e più polivalenti.

Fra i requisiti richiesti le attitudini stanno diventando importanti quasi come le competenze, cosicché certe doti “femminili” quali la cura, la relazionalità e l’attenzione contano più di ieri mentre contano meno di ieri la manualità e la fisicità stessa del lavoro. Le prescrizioni operative non sono più inderogabili e inflessibili come ieri, per cui il lavoro tende a essere meno livellato e standardizzato, quindi meno piatto e imperso-nale. Un numero sempre maggiore di persone, in ogni tipo di lavoro, lavorerà anche fisi-camente in rete e dovrà quindi “prestare attenzione” e sviluppare una “consapevolezza di rete”. Nessun lavoratore e nessuna impresa possono chiudersi in se stessi perché il post-fordismo produce e richiede maggiore flessibilità, sia funzionale che mentale. Del resto la qualità del prodotto richiede lavoratori la cui adattabilità cresca oltre la rotazione delle mansioni e l’allargamento dei compiti rivendicati invano dal movimento per la “qualità della vita di lavoro” negli anni Settanta. Il risultato generale è una maggiore autonomia anche per chi lavora alle dipendenze.

Se ne ha riscontro nella discrezionalità operativa, che oggi offre maggiori gradi di libertà perfino nell’esecuzione di lavori manuali standardizzati. Ma se ne ha riscontro soprattutto nella richiesta al singolo lavoratore di individuare gli intoppi e di risolvere i problemi che sorgono, mentre prima gli si vietava ogni iniziativa. Connaturata al post-fordismo come necessità e come virtù, questa nuova autonomia è del resto imposta dalla qualità del prodotto e del servizio, e dipende innanzitutto dalla cooperazione intelligente dei lavoratori, vale a dire quella inestimabile partecipazione nel lavoro che la Fondazione di Dublino chiama “partecipazione diretta”. La tendenza alla crescita di autono-mia nel lavoro è da ritenersi più realistica della tendenza alla crescita dei lavoratori autonomi (in Italia più qualitativa che quantitativa). Essa modifica la natura stessa della prestazione, seppure nel quadro di una persistente dominanza del rapporto subordinato. Considerata infatti la renitenza delle imprese a introdurre forme di partecipazione collettiva dei lavoratori, le stock option e i fondi previdenziali non bastano a scardinare il sistema del lavoro salariato.

Si consideri tuttavia che l’autonomia cresce in senso funzionale, non totale. Non è attingibile dal singolo, tant’è vero che funziona e che vale soltanto nell’ambito del gruppo o del flusso, e proprio per questo nega il concetto stesso di un lavoro individuale svolto in autonomia. Qualsiasi scenario di autonomia è errato se ignora che il lavoro è in rete. Infatti non è una autonomia sospesa nel vuoto e neppure vincolata da rigidi sbarramenti, bensì condizionata da uno sterminato sistema di riferi-menti. Rispetto a ieri il lavoratore, dipendente o autonomo che sia, dispone di molti più mezzi e modi per operare ma lo fa entro un reticolo di parametri, costituiti da informazioni, procedure e se-gnali, assai più fitto e più solido della “gabbia di acciaio” a cui Max Weber aveva assimilato il mec-canismo capitalistico. Il sistema di riferimenti entro cui tutti ormai lavorano – camionista, paramedi-co, financial promoter, web manager è assai più complesso di quello dell’epoca taylor-fordista.

E’ una catena leggera e inafferrabile ma straordinariamente cogente. Nel post-fordismo tutti i lavori sono destinati a stare dentro questo reticolo, portatore di libertà e di costrizione in maniera del tutto nuova. Incombe un modo di lavorare che impone a tutti un ritmo teso, perfino concitato, e una tensione continua, poco importa se si è dipendenti o indipendenti. Ciò apre prospettive prima impensabili: nel secolo scorso i sociologi studiavano l’oppressione dovuta alla monotonia e alla ripetitività men-tre adesso devono studiare l’ansia generata da variabilità e incertezze che stressano il lavoratore anziché abbatterlo. Ieri il sintomo era la noia, oggi la frenesia. Ieri il problema era la rigidità, oggi la flessibilità. Molti lavoratori soffrivano l’uniformità, il livellamento e la massificazione dei compiti mentre oggi soffrono perché i loro compiti cambiano in fretta, crescono in fretta, evolvono in fretta.

Ma nel post-fordismo c’è ancora molto fordismo. Anche se diminuisce l’esecutività e cresce la coo-perazione, non tutto il lavoro è meno esecutivo e non dappertutto è più cooperativo: la transizione è in corso e il nuovo non ha soppresso il vecchio, dal quale del resto proviene. Per questo, il nuovo contiene molti aspetti ambigui: basta pensare ai supermercati Carrefour, ai fast-food Mac Donald’s e a molti call center; oppure al fatto che la fatica viene abbattuta ma gli infortuni continuano. Nell’area degli impieghi regolari, gli ambienti di lavoro e la condizione lavorativa tendono comun-que a migliorare anche nei Paesi in via di sviluppo; tecnologie labour saving e progettazioni ergo-nomiche consentono di ridurre ancora la fatica e le malformazioni.

E’ invece meno facile ridurre gli infortuni e le “morti bianche” dove è più debole la cultura della sicurezza, cioè nelle piccole impre-se che sopportano minori sforzi, spese e controlli, e nella cosiddetta economia sommersa che ricalca e amplifica gli elementi negativi dell’impresa minore. Altrettanto profondi e non meno ambivalenti sono i movimenti che trasformano i termini della prestazione, cioè i rapporti di lavoro. Questi tendono a diventare: innanzitutto meno subordinati e più autonomi (perfino nel lavoro dipendente, come abbiamo appena visto); inoltre meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo quelli a tempo indeterminato; e infine meno uniformi giacché l’ambito dei contratti di lavoro si avvia a essere più circoscritto e assai più articolato, perfino individualizzato. L’impresa si è fatta flessibile e si aspetta che il lavoratore sia altrettanto flessibile.

L’elasticità della prestazione al mercato si ottiene con modalità di impiego che intaccano il modello di lavoro a tempo pieno e a du-rata indeterminata perché prevedono orari più corti, durate più corte, o tutt’e due. Fra piena stabilità e piena instabilità dell’occupazione si creato ormai un continuum analogo a quello che c’è fra piena occupazione e piena disoccupazione. Al tempo stesso nascono o crescono rapporti di lavoro che rendono meno nitida la distinzione fra dipendenti e indipendenti. Basti citare il lavoro autonomo “di seconda generazione”, basato su requisiti professionali anziché patrimoniali, di chi in Italia presta “collaborazioni coordinate e continuative”: è un gruppo eterogeneo che può essere tutelato soltanto in modo generico, mentre negli Stati Uniti gli indipendent contractors sono un gruppo omogeneo.

Quel che più colpisce è l’impetuosa crescita dei vari tipi di contratti a termine e di lavoro tempora-neo – o “interinale” (interimaire) o “in affitto” o “a chiamata” (on call) – attraverso i quali le imprese impiegano temporaneamente chi non trova lavoro, o desidera un’occupazione saltuaria, oppure non era attivo, e possono così aggirare i tradizionali vincoli, legislativi o contrattuali, alla flessibilità “numerica”. In Europa la maggioranza delle assunzioni è coperta da rapporti che danno luogo a combinazioni assai diverse nei tragitti lavorativi e nei profili di carriera: c’è chi lavora a termine o a chiamata per periodi abbastanza lunghi e chi viene assunto stabilmente dopo una o due reiterazioni o “missioni”.

Si teme pertanto che venga eroso lo stock dei contratti a tempo indeterminato, che tuttavia comprende più di otto occupati su dieci e che resterà il nucleo portante, come lo è tuttora negli Stati Uniti. Uno scenario di “precarizzazione”, una condizione di instabilità che mantenga i lavoratori in uno stato di soggiacenza, non conviene neppure alle imprese. A esse serve tanta stabilità quanta è compatibile con la competizione, e questo significa tenersi lavoratori efficienti anziché licenziarne e assumerne di continuo. Molte imprese prestano infatti maggiore attenzione alla risorsa umana, usano con cautela gli smagrimenti e incentivano la permanenza in azienda con forme di “fidelizzazione”: in cambio della mobilità totale da posto a posto, i fabbricanti d’auto Usa hanno garantito l’impiego a vita ai dipendenti con almeno dieci anni di anzianità.

Ma vi sono anche imprese che ricorrono al temporary management, cioè impiegano dirigenti con rapporto “interinale”.La vera novità sta nel fatto è che i contratti a termine stanno soppiantando il tradizionale periodo di prova per diventare la modalità normale di ingresso al lavoro. Così come il part-time, essi sono ovunque correlati positivamente al tasso di occupazione, e contribuiscono oltretutto a femminilizzare il mondo del lavoro. Certo vi sono delle imprese che li usano per tenere sotto ricatto chi lavora evitando un’assunzione stabile, ma molte altre imprese hanno effettivamente bisogno di un periodo più lungo di quello previsto dai contratti tradizionali: una conferma che la domanda di lavoro è più selettiva e che le scorte di mano d’opera sono state sostituite dai lavori a termine e a chiamata.

Queste novità destabilizzano i tradizionali rapporti di lavoro e i sindacati temono che possano alterare gli equilibri contrattuali, travolgere i sistemi di relazioni industriali, indebolire i profili di tutela, disarticolare le solidarietà fra i lavoratori. Uno dei rischi è la polarizzazione fra lavoratori stabili e lavoratori fluttuanti ma il più sentito è la “precarizzazione” cioè la fine del “posto fisso” che per molti europei è quasi un diritto di cittadinanza: infatti il senso di instabilità che si avverte è ancor prima culturale che sociale. In un paese a disoccupazione endemica come l’Italia, questo era un modello di protezione che, basandosi sul diritto al lavoro sancito dalla Costituzione, tutelava soprattutto i capo-famiglia maschi adulti impegnando lo Stato come occupatore di seconda istanza mediante l’estensione del settore pubblico e para-pubblico. Peraltro, la stabilità d’impiego oggi rim-pianta in Europa è più un mito che una realtà visto che nel Novecento ci furono una grande crisi e una grande disoccupazione, e che soltanto per un quarto di quel secolo ci si era avvicinati alla piena occupazione e a un vero welfare state. Molti lavorarono per tutta la vita nello stesso posto semplicemente perché era l’unico che avevano trovato, e ciò poteva farne un’occasione d’oro ma anche un lavoro forzato.

In avvenire assai pochi lavoreranno tutta la vita nello stesso posto, pochi nella medesima impresa e parecchi cambieranno anche mestiere. Tuttavia, chi potrebbe oggi proporre a un giovane o a una ragazza di passare 20-30 anni nella stessa azienda e magari tutta la vita nel medesimo mestiere? Né si può loro proporre una vita vorticosa tutta ispirata all’imperativo della flessibi-lità. Mentre la natura della prestazione tende dunque a cambiare in meglio perché è soggetta a minori vincoli e consente maggiore discrezionalità, i termini della prestazione tendono a cambiare in peggio perché la tutela tradizionale non può coprire impieghi più instabili e tragitti più discontinui. Per questo il mercato può apparire oggi minaccioso come la tecnologia nel secolo scorso: allora ci si in-terrogava sulle conseguenze umane del macchinismo industriale, e adesso del lavoro flessibile. La nuova identità professionaleLa transizione in corso non comporta né la sparizione del lavoro né la fine dei posti, ma in-tacca le certezze sociali perché può mettere a repentaglio i compromessi raggiunti nel Novecento. Se la tutela del lavoro tende a peggiorare mentre la qualità tende a migliorare, è perché era pensata per un altro lavoro e per un altro lavoratore.

Essa può portarsi al livello della qualità soltanto se viene modellata su un lavoro e un lavoratore con maggiore auto-nomia e con maggiore responsabilità quali il post-fordismo sta preparando. Nuovo lavoro è lavorare in rete, senza scorte e giusto in tempo. Nuovo lavoratore è chi lavora in più ruoli, in più posti, in più attività. Le conseguenze culturali, sociali, psicologiche e antropologiche sono rilevanti. Inseguendo il consumatore e trattando il lavoratore come individui singoli, il post-fordismo propone un modello di auto-direzione diverso dall’etero-direzione imposta dal taylor-fordismo. Lavorare con meno vincoli e più opportunità, ma anche con maggiore responsabilità e maggiori rischi, è forse l’altra faccia dell’individualismo di massa innescato dalla produzione snella just-in-time.Ogni lavoratore si trova immerso in un modo meno ferreo e più fluido nel sistema dei rapporti economici.

Il post-fordismo fa infatti emergere nel mondo del lavoro altrettante diversità quant’erano state le uniformità introdotte dal taylor-fordismo. La gabbia entro cui funzionava la società del lavoro era forte e visibile, mentre la ragnatela entro cui si colloca la società dei lavori è fitta e impalpabile. Se ieri era il Lavoro maiuscolo che teneva insieme la so-cietà, oggi è la società che tiene insieme i tanti lavori, attraverso un reticolo di snodi orizzontali anziché un’intelaiatura di gerarchie verticali. Una conse-guenza del tutto inattesa verrà dal contrasto fra la maggiore qualità e la mi-nore tutela del lavoro, e – di conseguenza – fra la maggiore implicazione interna e la minore copertura esterna del lavoratore: il lavoro cesserà infatti di perdere importanza e concorrerà alla formazione dell’identità sociale più di quanto si prevedesse negli ultimi decenni del Novecento, quando la riduzione del tempo di lavoro e l’aumento del tempo libero erodevano gli effetti identitari della relativa stabilità d’impiego e della discreta tenuta dei mestieri. Non è una novità di poco conto. Pochi vedono nel post-fordismo la prospettiva di una vera e propria fine del lavoro salariato, per esempio attraverso una “economia della partecipazione”: del resto, perfino negli Stati Uniti sono pochi gli imprenditori e i manager disposti ad associare tangibilmente i propri dipendenti al futuro dell’impresa. C’è invece chi vede nel prossimo futuro promesse di liberazione quali una individualizzazione del lavoro e del rapporto di lavoro, cui tenderebbe la cosiddetta “fuga dal lavoro subordinato”, che è spesso una scelta necessitata anziché voluta.

Di certo si sta affacciando un mondo dove i lavori stanno soppiantando il lavoro, per cui la discontinuità d’impiego e di carriera, involontaria o volontaria, può diventare normale per un numero sensibilmente maggiore di soggetti, anche con posto stabile. La costruzione dell’identità profes-sionale tende quindi a basarsi su più posti, più ruoli e più mestieri perché ciascuno di loro (al limite, ciascuna missione di lavoro temporaneo) aggiunge una porzione di esperienza, di formazione, di sapere. L’identificazione sociale attraverso i lavori seguirà quindi tragitti più complessi perché meno rettilinei e più personali, con sovrapposizioni e dissociazioni fra la sfera del lavoro e le altre sfere dell’esistenza. Ciò darà luogo a identità composite in senso diacronico, diverse cioè da quelle plurime in senso sincronico a cui solitamente alludono i sociologi. Ciò rende necessaria una rete protettiva leggera e universalistica che assista il lavoratore nella transizione di posto o di carriera, aiutandolo a valutare il proprio potenziale e a ricollocarsi in modo adeguato; che certifichi i passaggi compiuti negli itinerari di lavoro e di formazione; che accompagni i periodi di mobilità con attività di formazione o di “tutoraggio” in vista del reimpiego; che met-ta a frutto l’anzianità maturata negli impieghi temporanei presso la medesima impresa; che ricomponga i vari spezzoni di occupazione dipendente o autonoma agli effetti della carriera assicurativa, aiutando a ricoprire o consentendo di riscattare i vuoti.

E’ necessario quindi che rimanga una traccia dei tragitti che, da un impiego, all’altro costruiscono l’identità socio-professionale dei singoli: traccia di cittadinanza che può consistere in una anagrafe generale del lavoro o in un libretto elettronico del lavoratore. (Negli Stati Uniti chiunque lavora dispone di un social security number.) Questa è la prima tutela dell’individuo lavoratore, il primo elementare diritto di una sicurezza sociale adatta al capillare universo dei lavori. Si pongono interrogativi a cui è difficile rispondere. Ci si chiede per esempio se possano essere valorizzati gli spazi di autonomia individuale e diversificate le forme di tutela dei lavoratori sen-za abbandonare il cammino storico della solidarietà e dell’uguaglianza. Così pure, ci si chiede se una tutela che si fa al tempo stesso più leggera e più universalistica debba proteggere anche i lavori non tipici, non istituzionali, non subordinati: cioè se si vada verso una cittadinanza del lavoro sans phrase che si situerebbe agli antipodi di quella del Lavoro maiuscolo, tipico del Novecento.

E’ chiaro che il sistema delle tutele va ridisegnato, innanzitutto con la legislazione, in ambito nazionale ma soprattutto internazionale. L’Unione europea ricopre in tal senso un ruolo decisivo perché costituisce già ora un riferimento mondiale per la protezione del lavoro nella moderna eco-nomia di mercato. Sebbene la contrattazione fra partner sociali abbia egregiamente soddisfatto in molti paesi l’esigenza di conciliare la cittadinanza con il mercato, nella fase post-fordista essa assumerà probabilmente un’impronta diversa dal passato. E’ inevitabile che, passando dal Lavoro ai lavori, la copertura data dai tradizionali contratti di lavoro diventi più circoscritta non tanto (o non soltanto) perché nel frattempo si allarga l’area dell’autotutela individuale, ma perché il focus della regolazione si sposta verso il livello aziendale e quello territoriale, e perché aumentano nel contem-po gli spazi coperti dalla regolazione bilaterale in campi come la formazione dei lavoratori, l’incontro domanda-offerta, la sicurezza sui luoghi di lavoro. Mentre la società dei lavori si afferma a livello mondiale, non è prevedibile un brusco declino del ruolo dei sindacati, i quali stanno del resto presentandosi ex novo o cominciando ad affermarsi sulla scena di molti paesi in sviluppo, specie nel Sud-Est asiatico.

Al restringersi della tradizionale area di tutela del lavoro operaio-industriale-fordista, corrispondono infatti bisogni di tutela nuovi, tutti da delineare e da costruire, nell’area del lavoro post-fordista, discontinuo, atipico. Perfino in un rapporto di lavoro individualizzato, dove il lavoratore sembrerebbe potersi tutelarsi da sé grazie al proprio potere contrattuale, perfino in questo caso il sindacato può offrire qualche forma di ausilio se non di tutela vera e propria. Nella società dei lavori ci saranno dei lavoratori che hanno minori bisogni di tutela ma ce ne saranno molti altri che hanno maggiori bisogni di tutela, da parte del sindacato o da parte dello Stato o di entrambi. Rispetto al passato, non si tratta soltanto di tutelare meglio i diritti ma anche le “sorti” dei singoli, nelle concrete realtà dei mercati del lavoro e dei luoghi di lavoro. L’istanza stessa della partecipazione all’impresa, che poggia sulla maggiore partecipazione nel lavoro, verrebbe frustrata se predominasse l’insicurezza e l’instabilità.

*Questo articolo è una sintesi del saggio pubblicato in Storia dell’economia mondiale, VI – Nuovi equilibri in un mercato globale a cura di Valerio Castronovo, Laterza, 2002.

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