Chi ha uno stent e si deve sottoporre a un intervento non deve per forza sospendere la terapia farmacologica per fluidificare il sangue. Lo dicono i dati contenuti nel primo registro italiano delle operazioni eseguite su questi pazienti, il Surgery After Stenting Registry (SAS), presentato a Genova nel corso del 36° Congresso Nazionale della Società Italiana di Cardiologia Invasiva (Sici-Gise). Frutto dell’attività di cardiologi clinici, cardiologi interventisti, anestesisti, insieme a 12 società nazionali di chirurgia, il registro ha coinvolto un totale di 1.082 pazienti (82% maschi, età media 71 ± 9 anni), provvisti già di un impianto di stent che si sono sottoposti a vari tipi di intervento chirurgico. L’analisi dei dati raccolti conferma ciò che le linee guida italiane avevano già sancito su base teorica: non è necessario interrompere la terapia antiaggregante nel periodo peri-operatorio, ma l’opportunità va valutata caso per caso.
Quando nelle coronarie viene inserito uno stent, strumento che serve a mantenere il vaso sanguigno largo abbastanza per permettere un adeguato afflusso di sangue, l’organismo tende a considerarlo un “corpo estraneo” e quindi scatena una reazione che dà luogo a delle aggregazioni lungo il vaso stesso. Per evitare che ciò accada, il paziente segue una terapia antiaggregante, ovvero assume specifici farmaci che rendono il sangue più fluido, per esempio l’acido acetilsalicidico, impedendo così alle piastrine di aggregarsi e di formare trombi. In Italia si effettuano circa 142mila angioplastiche coronariche l’anno, il 10-20% di questi pazienti (circa 14mila persone) nei 3-8 mesi successivi può aver bisogno di fare un altro intervento chirurgico, per esempio un impianto.
“Il registro è di particolare rilevanza poiché fino ad ora nella prassi clinica è sempre stato consigliato al paziente di interrompere la terapia antiaggregante nel momento in cui doveva sottoporsi a un intervento per evitare eccessivi rischi o complicanze di sanguinamento, trombosi o di andare incontro a un infarto peri-operatorio”, ha spiegato Sergio Berti, presidente della Società Italiana di Cardiologia Invasiva SICI-GISE. “I dati emersi dal registro hanno invece dimostrato che è possibile gestire la terapia antiaggregante, senza interromperla, valutando il profilo di rischio dei pazienti”.
“Questi dati”, ha spiegato Gennaro Sardella, presidente Comitato Scientifico della Società Italiana di Cardiologia Invasiva SICI-GISE, “danno l’idea della grande quantità di pazienti in cura con farmaci che inibiscono l’aggregazione piastrinica che si possono trovare ad affrontare un intervento chirurgico anche banale, come quello di natura odontoiatrica, ma che deve essere gestito per evitare possibili sanguinamenti più importanti rispetto a un comune paziente. Il SAS suggerisce che non è necessario sospendere la terapia, anzi continuarla è una procedura sicura oltre che fortemente consigliata. Ci auguriamo che queste nuove linee guida verranno applicate sempre di più nella pratica clinica, in modo da evitare inutili rischi”.
Prima di sottoporsi a un intervento chirurgico il paziente con stent, quindi, deve consultare il cardiologo curante per definire la gestione della terapia antiaggregante in funzione del rischio trombotico ed emorragico relativi alla sua specifica situazione clinica.
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