Salute

Approvato negli Usa aducanumab, un anticorpo monoclonale contro l’Alzheimer

Nato e cresciuto con le migliori speranze, abbandonato con rammarico, resuscitato e infine approvato. In estrema sintesi è questa la storia di aducanumab (Aduhelm), il farmaco appena approvato dalla Food And Drug Administration (Fda) per il trattamento dell’Alzheimer. Il primo dal 2003, il primo a prendere di mira i processi alla base della malattia. E basterebbe questo a renderlo una pietra miliare nella lotta alla malattia, costellata di diversi fallimenti, nella faticosa ricerca di una cura. Ma l’approvazione di aducanumab se da una parte ha generato comprensibili entusiasmi – l’Alzheimer a oggi è una malattia degenerativa devastante, una forma di demenza che colpisce decine di milioni di persone al mondo – dall’altra è stata accolta con scetticismo, e qualche timore. Perché?

Quella di aducanumab è una storia travagliata. Del farmaco si parla infatti da tempo: si tratta di un anticorpo monoclonale che prende di mira le placche di beta amiloide del sistema nervoso centrale, una delle caratteristiche biologiche associate alla malattia di Alzheimer, insieme agli ammassi neurofibrillari della proteina tau. Le prime analisi su un numero limitato di pazienti avevano mostrato che il farmaco fosse capace, in modo dose dipendente, di ridurre le placche amiloidi e si associava anche a un miglioramento cognitivo. Ma la speranza di replicare e confermare i risultati in studi più ampi, come previsto, era stata quindi spezzata quando poco tempo dopo Biogen ed Eisai, le aziende dietro lo sviluppo del farmaco, annunciavano l’interruzione dei trial di fase tre per mancanza di prove di efficacia. Non molto tempo dopo però nuove analisi sugli stessi studi, a detta delle aziende, a favore dell’utilità del farmaco, avrebbero spinto a chiedere l’autorizzazione del farmaco all’Fda, non senza perplessità. E oggi quegli stessi studi – condotti su pazienti con malattia lieve – sono citati come fonte di evidenze a supporto dell’approvazione dell’Fda. Ma è la stessa Fda a definire i limiti e il contesto dell’approvazione del farmaco.


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Aducanumab è un anticorpo monoclonale da assumere per infusione, una volta ogni quattro settimane, per un costo annuale di 56mila dollari, con effetti collaterali come edema cerebrale temporaneo, associato o meno a emorragie, senza sintomi, o con mal di testa, confusione, vertigini, nausea, oltre a reazioni di ipersensibilità. Ha avuto l’ok dell’Fda attraverso un processo di approvazione accelerata. Una via riservata a malattie gravi e con bisogni insoddisfatti ma con qualche cautela. Secondo l’Fda infatti sappiamo che aducanumab riduce le placche amiloidi, ma questo di per sé non è una misura del beneficio clinico. Lo rimarca in una lunga nota a margine della notizia dell’approvazione, Patrizia Cavazzoni, a capo del Fda Center for Drug Evaluation and Research, in cui racconta come e perché si è arrivati a questa decisione, malgrado dubbi e scetticismi sulla reale efficacia del farmaco. “Come spesso accade quando si tratta di interpretare i dati scientifici, la comunità di esperti ha offerto prospettive diverse”, scrive, e non potremmo forse capirlo meglio dopo oltre un anno di pandemia.

Ma tornando ad aducanumab: quello che pare certo è che il farmaco riduca sì le placche amiloidi, ma se questo si traduca effettivamente in miglioramenti a livello cognitivo non è chiaro. È qualcosa, di “atteso”, “ragionevolmente probabile”, scrive Cavazzoni, ma non provato, a fronte di dati non del tutto inequivocabili e complicati. Al punto che Peripheral and Central Nervous System Drugs Advisory Committee non ha ritenuto i dati sufficienti a provare i benefici del farmaco, cosa che invece alla fine ha convenuto l’Fda, considerato l’impatto della malattia e il bisogno, soprattutto da parte dei pazienti, di trovare qualcosa. Ma c’è chi intravede in questo proprio il rischio della mossa dell’Fda, presa in un contesto di così dichiarata incertezza, con i pazienti propensi ad ascoltare solo i potenziali benefici del farmaco, come racconta un clinico al New York Times riferendo la propria esperienza. Il trial post approvazione chiesto alle aziende dietro al farmaco aiuterà a far chiarezza e potrebbe far rivedere ancora una volta tutto.

Via: Wired.it

Credits immagine: geralt via Pixabay

Anna Lisa Bonfranceschi

Giornalista scientifica, a Galileo Giornale di Scienza dal 2010. È laureata in Biologia Molecolare e Cellulare e oggi collabora principalmente con Wired e La Repubblica.

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