Bollicine di luce

A volte fenomeni fisici davvero interessanti si “nascondono” anche in oggetti piuttosto semplici, per esempio un’ampolla piena di liquido attraversata da onde sonore. Lo dimostra un articolo pubblicato sul prossimo numero di Nature da Sascha Hilgenfeldt, della Harvard University, Siegfried Grossmann, dell’Università di Marburg (Germania) e Detlef Lohse, dellUniversità di Twente (Olanda). Dopo anni di interpretazioni incerte, con un articolo di rara eleganza, i tre sono riusciti a spiegare il fenomeno della sonoluminescienza. In cosa consiste? Semplificando un po’: prendete una ampolla piena di liquido, mettetela vicino una cassa dello stereo che emette una sola frequenza e alzate il volume. All’interno della bolla si formeranno delle onde sonore. Ora, se spegnete le luci, in corrispondenza dei nodi delle onde si vedranno dei piccoli puntini luminosi. Le onde formano delle micro-bolle nel liquido (in questo caso da 5 a 70 millesimi di millimetro di diametro, circa lo spessore di un capello). Poi, sotto la pressione del liquido le bolle “implodono” emettendo una scintilla. Un meccanismo piuttosto semplice, ma che finora nessuno aveva spiegato in dettaglio e che soprattutto rivela altri fenomeni davvero interessanti.

La sonoluminescenza era più o meno nota dall’inizio del secolo. Ma i ricercatori iniziarono a studiarla a fondo solo nel 1989, quando Felipe Gaitan riuscì ad aggiustare i parametri dell’esperimento in maniera da poter guardare una sola bolla alla volta, la cosidetta Singel Bubble Sono-Luminescence, in breve Sbsl. Studiando la luce della sua ampolla, Gaitan si rese conto che non era continua, ma veniva emessa in tanti brevi flash: una media di 20 mila al secondo. Dopo la scoperta di Gaitan, Seth Puttermann si convinse che forse si trattava di un fenomeno nuovo, che avrebbe potuto portare allo sviluppo di una branca completamente nuova della fisica. Si chiuse in laboratorio raccogliendo una grande quantità di dati sulla Sbsl al variare dei parametri sperimentali.

Ma a distanza di 10 anni ci si capiva meno di prima. E qui arriva il lavoro di Hilgenfeldt, Grossmann e Lohse. Essi dimostrano che la sonoluminescenza non è una branca nuova della fisica, come pensava Puttermann, ma si può spiegare usando le leggi dell’idrodinamica e della fisica dei plasmi. Ma non per questo si rivela meno interessante, anche se i tre ricercatori, per il loro articolo, hanno scelto un titolo apparentemente dimesso: “Una semplice spiegazione dell’emissione di luce nella sonoluminescenza”.

Per cominciare, notano che il tipo di radiazione emessa nella Sbsl non assomiglia affatto alla radiazione di corpo nero, come si era pensato in un primo momento. Il ché è un fatto piuttosto importante, perché significa che la luce emessa dipende dal materiale e i fotoni osservati trasportano informazioni sul meccanismo specifico che avviene nella bolla. E questo è già un bel risultato, ma non è tutto. Bisogna pensare a un modo per descrivere la bolla che collassa. Hilgenfeldt e compagni scoprono che le cosiddette equazioni di Rayleigh-Plesset descrivono la variazione di raggio e di temperatura all’interno della bolla, temperatura che raggiunge il ragguardevole livello 20-30 mila gradi. Ma non è finita. A queste temperature, il gas nella bolla è in stato di plasma, cioè una sorta di “zuppa” in cui gli elettroni non sono più legati agli atomi. Quali mecacnismi di emissione di luce sono dunque attivi in questa situazione? Sono due: la luce viene emessa perché le particelle cariche dello stesso segno si scontrano rallentandosi (la cosiddetta radiazione di bremsstrahlung) oppure perché particelle di carica opposta si ricobinano.

I risultati degli esperimenti si accordano in maniera stupefacente con la teoria e l’eleganza della “semplice spiegazione” sta nel fatto che non servono i cosiddetti “parametri aggiustabili di fitting”, trucco un po’ indecente e tanto caro alla comunità scientifica che permette di confermare più o meno qualunque teoria con qualunque esperimento. E c’è anche chi comincia a fantasticare. Per esempio: se l’implosione di una bolla di 70 micron fa schizzare la temperatura a 30 mila gradi, cosa potrebbe succedere se la bolla divenisse dieci volte più grande, attorno al millimetro di diametro? E se dentro la bolla ci fosse del deuterio, o una miscela di deuterio e trizio, non potrebbe forse innescarsi una microfusione nucleare (calda)? La piccola comunità degli addetti ai lavori ci va con i piedi di piombo, cercando di evitare i clamori (e poi le delusioni) che suscitò ai suoi tempi l’altra fusione, quella fredda. Ma inevitabilmente l’ottimismo sprizza, e c’è già chi parla di “stelle in un bicchiere”.

* fisico dell’Università della California, Berkeley

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