Aragoste: bollirle vive non serve, lo dicono gli chef

Quando ordiniamo un’aragosta al ristorante probabilmente non perdiamo troppo tempo a riflettere su come verrà cucinata. Eppure si tratta di un tema estremamente controverso: la tecnica classica, infatti, prevede la bollitura del crostaceo ancora vivo, e in molti iniziano a chiedersi se non si tratti di un’abitudine crudele. Come possiamo essere certi, infatti, che questi animali non provino dolore? Nel dubbio il Consiglio della Confederazione Svizzera ha deciso di non correre rischi, unendosi a un piccolo gruppo di paesi che non ammette il maltrattamento delle aragoste. A partire dal primo di marzo sul territorio svizzero sarà quindi vietato inserirle nella pentola senza prima averle uccise o stordite. E sarà vietato anche il comune trasporto su ghiaccio o in acqua ghiacciata, a favore di trasferimenti in acqua salata, loro habitat naturale. Ma tanta premura è giustificata da dati scientifici? E perché gli chef continuano a chiedere a gran voce il diritto di bollire vive le aragoste?

Andiamo con ordine. Innanzitutto, la Svizzera non è il primo paese a legiferare in favore di questi crostacei. Con il divieto si unisce a paesi come la Nuova Zelanda, che vieta la pratica di cuocerle vive dal 1999, o la città di Reggio Emilia che impone una multa sino a 495 euro a chi viene scoperto nel bollire o aprire un’aragosta ancora in vita. È bene ricordare inoltre che la Corte di Cassazione – a seguito di un esposto della LAV – ha condannato in via definitiva nel 2014 per maltrattamento di animali un ristoratore di Campi Bisenzio (Fi) che teneva all’interno del frigo aragoste e granchi vivi con le chele legate.

Ma se la pratica attira tante polemiche, perché si continuano a bollire vivi questi crostacei? A guardar bene probabilmente è più per tradizione, piuttosto che per una reale esigenza culinaria. “Come tutti i crostacei la freschezza estrema è fondamentale per il sapore – racconta a Galileo Federico Ferrero, medico nutrizionista e vincitore di Masterchef 3 – e viene mantenuta finché l’animale è vivo. Ma questo non significa che non possa essere macellato un momento prima di cuocerlo. Basta praticare un taglio secco, che divida il capo procedendo con la lama del coltello dal dietro verso l’avanti, l’animale muore e lo si può inserire in padella immediatamente e senza sofferenze”.

Della stessa opinione anche lo chef e youtuber Stefano Barbato: “Questi crostacei vanno rapidamente in contro a un processo di deterioramento, a meno che non si provveda a un repentino congelamento”, ci spiega. “Ma per evitare il rischio che provino dolore esistono diversi accorgimenti facili da portare a termine, come a esempio anestetizzarli inserendoli per alcuni minuti nel congelatore o nell’abbattitore”.

Dal mondo della cucina, insomma, assicurano che le alternative ci sono. Ma sul piano scientifico il dibattito sembra tutt’altro che concluso. Nemmeno Robert Elwood, professore emerito di comportamento animale alla Queen’s University di Belfast, che ha condotto gli esperimenti su cui si è basata la decisione del governo svizzero, è certo al 100 percento che le aragoste possano provare dolore. Dopo aver assistito alla preparazione tradizionale però, si è convinto che nel dubbio la cosa migliore fosse evitare il rischio di torturarle. “Non c’è una prova definitiva, ma ho svolto moltissimi esperimenti e quasi tutti i risultati che ho ottenuto sono consistenti con l’ipotesi che questi animali provino dolore – ha dichiarato Elwood sul New York Times – e per questo penso che dovremmo avere un approccio più ‘umano’ nei confronti delle aragoste”.

Di diverso avviso è Joseph Ayers, professore di scienze marine e ambientali alla Northeastern University di Boston, che nell’articolo del New York Times spiega anzi di trovare molto strana l’idea di attribuire ai crostacei delle risposte di dolore simili a quelle umane. “Il cervello delle aragoste non è anatomicamente predisposto per sentire dolore”, sostiene infatti Ayers.

Chi avrà ragione? Difficile a dirsi, in mancanza di studi scientifici più approfonditi. E se da un lato diversi ricercatori concordano con Ayer nell’affermare che le aragoste non possiedono le aree cerebrali che siamo abituati ad associare alla sensazione di dolore, dall’altro in molti ammettono anche che il sistema nervoso dei crostacei è talmente diverso dal nostro che al momento è praticamente impossibile dire con certezza se provino sensazioni, o di quale tipo e intensità siano.

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