“Non esiste alcun piano per la produzione di ordigni atomici”: così ha risposto Kim Ryong Son, capo della delegazione nord-coreana nei negoziati apertisi ieri a Seul, al ministro dell’unificazione sud-coreano che aveva invitato il Nord a rimettere i sigilli agli impianti nucleari riattivati il mese scorso e a rientrare nel Trattato di non proliferazione nucleare. Per “riacquistare la fiducia della comunità internazionale” e porre così fine all’impasse diplomatica con gli Usa apertasi lo scorso ottobre. Sfumata l’ipotesi, caldeggiata dal vicesegretario di stato americano John Bolton, di affidare all’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e all’Onu la ricerca di una soluzione alla crisi, le speranze della comunità internazionale si concentrano ora tutte sui negoziati avviati ieri con la mediazione della Corea del Sud. Ma le rassicurazioni di Kim Ryong Son sono ‘’insoddisfacenti’’ per la Corea del Sud, che vorrebbe impegni più precisi e concreti riguardo alla non ambizione nucleare del Nord. Il quale a sua volta, ritiene ‘’non sincera’’ la recente disponibilita’ degli Stati Uniti a dialogare, come ha dichiarato sempre ieri l’ambasciatore nord-coreano in Italia nel corso di un convegno romano. Secondo il diplomatico sarebbe stato proprio l’ atteggiamento ‘’ostile’’ degli Stati Uniti a costringere la Corea del Nord a uscire dal Trattato di non proliferazione nucleare. Per comprendere le ragioni e la reale gravità e importanza di questa crisi Galileo ha dato la parola a Nicola Cufaro Petrone, segretario dell’Unione scienziati per il disamo (Uspid).Il 16 ottobre 2002 il Dipartimento di Stato degli Usa ha reso pubblico che, due settimane prima, i funzionari della Dprk (Democratic People Republic of Korea, o Corea del Nord), avevano ammesso di avere un programma di arricchimento dell’uranio per scopi militari in violazione del Non Proliferation Treaty (Npt) firmato nel 1985 e di altri accordi stipulati nel 1992 e nel 1994. Il periodo successivo alle dichiarazioni Usa sul programma nord-coreano di arricchimento dell’uranio è stato contrassegnato da una notevole confusione sulla esatta natura delle ammissioni della Corea del Nord e da grande ansietà per le conseguenze a lungo termine di un possibile collasso del cosiddetto Agreed Framework (Af) negoziato nel 1994 a conclusione di un altro importante periodo di crisi. La confusione è stata anche aggravata dal fatto che le rivelazioni sono cadute in un momento in cui gli Usa sono impegnati in un’altra crisi di grandi proporzioni: quella dell’Iraq. Peraltro la linea ufficiale di Pyongyang sembra essere deliberatamente ambigua: la Dprk non ha mai né confermato né smentito le rivelazioni americane. Ad ogni modo, ma sempre senza fare ammissioni esplicite, il 25 ottobre il Ministero degli Esteri nord-coreano ha proposto una soluzione alla crisi sulla base di “un patto di non aggressione fra la Dprk e gli Usa”. La Casa Bianca ha invece preteso che si dessero delle risposte dure (in particolare la sospensione delle consegne di petrolio) rifiutando l’avvio di un negoziato. Conseguentemente, Pyongyang ha riaperto le proprie installazioni legate alla produzione di plutonio per armi nucleari espellendo gli ispettori Iaea. Secondo le informazioni disponibili, il programma coreano di arricchimento dell’uranio necessiterebbe almeno di uno-tre anni per cominciare a produrre materiale per bombe. Non è chiaro se la Dprk abbia anche un progetto funzionante per costruire armi nucleari. Più importante e reale sembra invece essere la ripresa del progetto di produzione di plutonio che notoriamente era già in uno stato più avanzato: tale ripresa, conseguenza dello sviluppo dell’attuale crisi, è una possibilità chiaramente implicita nella riattivazione degli impianti di Yongbyon iniziata a dicembre 2002 dopo la sospensione delle consegne di petrolio da parte degli Usa.Il prossimo passo nella ripresa del programma nucleare potrebbe essere, nel febbraio 2003, l’inizio della separazione del plutonio dal combustibile esaurito attualmente in deposito. Questo fatto è particolarmente grave anche alla luce della ben nota tendenza della Corea del Nord ad esportare la propria tecnologia (come attualmente fa nel caso dei missili). In prospettiva, nulla impedirebbe alla Dprk di diventare fornitrice di armi nucleari non solo per paesi attualmente non nucleari, ma anche per organizzazioni terroristiche di altri paesi. Per questi motivi la Corea del Sud e il Giappone hanno esercitato pressioni sugli Usa per abbandonare la politica dell’Asse del Male e il 7 gennaio in una dichiarazione congiunta Washington, Tokio e Seoul hanno emanato un comunicato sollecitando un colloquio diretto con Pyongyang: in contrasto con l’attuale politica Usa sulle sospette armi di distruzione di massa dell’Iraq, la dichiarazione afferma che gli Usa “non rappresentano alcuna minaccia e non hanno intenzione di invadere la Corea del Nord”. Per imporre il blocco dei programmi nucleari della Dprk gli Usa dovranno probabilmente confermare gli impegni sulla sicurezza nordcoreana riprendendo le consegne di petrolio e gli aiuti economici previsti dagli accordi del 1994: la retorica e i discorsi incendiari raramente producono risultati di non proliferazione.La reazione coreana alle rivelazioni Usa sembra intesa innanzitutto a rendere chiaro a Washington che la Corea del Nord non sarà il prossimo Iraq: è abbastanza evidente che il semplice sospetto che essa già possieda armi nucleari la rende un caso diverso. In secondo luogo la posizione di sfida può essere un primo passo in una strategia per contrattare una soluzione conveniente alla Dprk; ma questa potrebbe anche aver deciso che è più utile dotarsi prima di un arsenale nucleare per tornare poi al negoziato in una posizione più forte. La Dprk è un paese estremamente chiuso e difficile da decifrare anche se i suoi comportamenti sembrano in fondo dettati da una razionalità piuttosto elementare. Non è strano quindi che, in risposta al peggiorare della crisi, l’amministrazione Bush sia stata obbligata a modificare la propria politica accettando di far ripartire dei colloqui con Pyongyang: una conseguenza del fallimento del tentativo di imporre la denuclearizzazione minacciando misure economiche punitive. Dal suo arrivo, infatti, la nuova amministrazione aveva abbandonato la politica del suo predecessore che aveva prodotto i successi – ancorché limitati – dell’AF, e nel gennaio 2002 aveva riattizzato i timori nord-coreani per la propria sicurezza includendo il paese nel cosiddetto Asse del Male e elencandolo successivamente nella lista dei paesi oggetto di una politica di interventi preventivi. Non possiamo non osservare che la coincidenza temporale fra questa crisi coreana e quella dell’Iraq rende particolarmente stridente il contrasto fra gli atteggiamenti assunti dall’amministrazione Bush nei due casi, pur essendo ambedue i paesi parte dell’Asse del Male. Prima di tutto una delle ragioni di questo contrasto va ricercata nel diverso contesto geopolitico nel quale si trovano i due paesi in questione: l’Iraq è collocato in una zona particolarmente delicata a causa del fatto che essa fornisce una gran parte del petrolio consumato dai paesi occidentali (e in particolare dagli Usa) ed è sede delle più grandi riserve di greggio accertate fino ad oggi. Inoltre non si deve dimenticare che la vicinanza di Israele e le crescenti difficoltà incontrate per la risoluzione del problema palestinese rendono l’esistenza del regime irakeno particolarmente indigeribile Washington. La Corea del Nord invece, pur essendo collocata in una zona strategicamente importante fra Cina, Russia, Corea del Sud e Giappone non sembra sollecitare allo stesso modo le inquietudini americane. In secondo luogo la Corea del Nord, se già non ha costruito qualche testata, è certamente molto più vicina dell’Iraq al possesso reale di armi nucleari. Questo le conferisce uno status di quasi-potenza nucleare che rende molto più difficili i calcoli per un intervento militare. Le implicazioni di questa osservazione sono particolarmente importanti per il mantenimento di un regime di non proliferazione: se ne potrebbe dedurre infatti che per imporre rispetto agli Usa è prima di tutto necessario dotarsi di armi nucleari. Non bisogna infine trascurare un altro aspetto della vicenda: l’importanza di un fronte unito di paesi alleati e neutrali nell’impedire risposte affrettate e decisioni avventuriste. I paesi vicini della Corea del Nord si sono mostrati infatti concordi sul giudicare che la maniera giusta di affrontare la crisi non è lo scontro militare o il bombardamento di qualche installazione nucleare. Essi trovano difficile immaginare un intervento preventivo nei confronti di un paese la cui minaccia è considerata più retorica che reale e che usa la proliferazione nucleare come arma diplomatica. Cina, Russia, Corea del Sud e Giappone stanno piuttosto tentando, non senza qualche successo, di usare mezzi economici e diplomatici per modificare la natura del regime di Pyongyang. Per quanto possano essere irritati contro i dirigenti nord-coreani, essi non permetteranno mai che i loro progetti di lungo termine siano trascurati in favore di un’azione affrettata e miope. I paesi dell’Ue, magari in collaborazione con Russia e Turchia, avrebbero potuto giocare un ruolo analogo per disinnescare la crisi irachena, ma per il momento questo non è avvenuto, anche se di tanto in tanto compaiono timidi segni di iniziativa come hanno recentemente mostrato le prese di posizione congiunte di Francia e Germania.