Buchanan sfida Keynes

James Buchanan
La democrazia in deficit
Armando editore, 1997
lire 35.000

A vent’anni esatti dalla sua prima pubblicazione negli Stati Uniti, avvenuta nel 1977, esce anche in Italia la traduzione del libro del premio Nobel per l’Economia James Buchanan. In questa occasione, l’economista si è fermato a Roma a presentare il volume, tenendo un dibattito all’Associazione Palomar.

In questo saggio, le sue tesi tradizionali sono impiegate a confutare l’eredità di John Maynard Keynes. Capostipite di una scuola – la cosiddetta “public choice school of debt” – che tiene conto del rapporto funzionale tra teorie economiche e realtà politico-istituzionale, Buchanan sostiene che il grande economista britannico sarebbe il principale responsabile della rovinosa tendenza al deficit pubblico.

Nelle sue teorie, infatti, Keynes incoraggia a non tener più conto del pareggio annuale di bilancio, ma a proiettare il raggiungimento di questo risultato in là negli anni, cioè alla fine del ciclo economico intrapreso con l’azione di governo. Da ciò, dice Buchanan, deriva un cedimento alle pressioni corporative, lobbistiche e sindacali, a cui i politici, per ragioni di consenso, non sono in grado di resistere, almeno in una democrazia. Ecco dunque che il deficit non si restringe affatto alla fine del ciclo, anzi straborda.

Buchanan propone dunque la sua soluzione: che il pareggio annuale diventi norma cotituzionale. Solo così, sostiene, si eviterà di scaricare sulle generazioni future gli oneri del deficit; e solo così ci si proteggerà dalle inevitabili distorsioni che discendono da ogni politica economica basata su una “benevolenza dei governi”, di cui l’economista americano invita a non fidarsi. Solo così, soprattutto, si lasceranno agire indisturbati i meccanismi oggettivamente efficienti del mercato.

A queste teorie di Buchanan si può ribattere in due modi. Innanzitutto secondo un criterio storico: il deficit degli ultimi cinquant’anni si è prodotto anche, e forse soprattutto, a causa delle spese militari dovute alla guerra fredda e ai conflitti locali, cosa di cui Keynes non ha colpa. La prova? Il deficit degli Stati Uniti è esploso sotto la guida iperliberista di Reagan, e grazie proprio ai programmi di riarmo.

Il secondo criterio riguarda la giustizia redistributiva. Le politiche keynesiane sono nate perché l’economia di mercato classica incappava in crisi recessive dovute alla troppo bassa quota di consumi concessa a ceti socialmente vasti. Il deficit keynesiano intendeva proprio stimolarne la domande, rinvigorendo il ciclo economico per poi rientrare dal deficit nel giro di qualche anno, quando le entrate fiscali sarebbero cresciute proprio grazie allo sviluppo economico che si era determinato.

Costituzionalizzare il pareggio annuale di bilancio, per mettere la sordina alle pressioni democratiche sui governanti, potrebbe avere esiti pericolosi. Infatti una simile soluzione, prima ancora di far tacere le corporazioni forti (che saprebbero comunque trovare la loro “fetta” anche all’interno di un bilancio in pareggio), farebbe tacere i ceti deboli, con la loro perenne esclusione dai benefici della crescita economica.

Anche all’interno di una politica virtuosa come quella del pareggio di bilancio, dunque, si pone il problema del chi favorire e secondo quali criteri etici. Più che di “benevolenza”, si pone una questione di giustizia.

Palomar è un’esperienza culturale composta di due livelli. Quello culturale e associativo, di cui l’incontro con Buchanan è un esempio, si sorregge grazie al livello economico. Dotata di linea Isdn per la navigazione in rete, di un Cafè, di una libreria e di una sala conferenze attrezzata con megascreen, Palomar è aperta a tutti e non solo ai soci. Sono appunto i proventi del cybercafè e delle altre attività, tra cui i corsi informatici e di altro tipo, a procurare le risorse per lo svolgimento delle attività culturali.

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