Una via per “affamare” il cancro al pancreas apre nuove prospettive

cancro al pancreas
(Credit: KGH via Wikipedia)

Contro un nemico aggressivo come il cancro al pancreas ci vogliono armi non convenzionali. Così un nutrito gruppo di ricercatori statunitensi ha costretto uno dei tumori più letali in assoluto prima a nutrirsi di se stesso (un processo noto come autofagia) per poi impedirglielo, togliendogli la principale fonte di sostentamento. Con l’obiettivo, ovviamente, di affamarlo e distruggerlo. La doppia strategia farmacologica, descritta su Nature Medicine, sembra efficace, tanto che in soli due anni si è passati dal laboratorio al paziente. Gli esperti, però, sono cauti: i risultati sono promettenti ma per sconfiggere il cancro al pancreas non basta.

Il cancro al pancreas

Benché non sia uno dei tumori più diffusi, l’incidenza del tumore al pancreas nel mondo sta crescendo. Un dato assai poco rassicurante, aggravato dal fatto che il tasso di sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è inferiore al 9% e la maggior parte dei pazienti (75%) muore entro un anno dalla diagnosi del tumore. Una malattia infida, praticamente asintomatica fino a quando non è troppo tardi, e ormai il tumore è inoperabile o si è diffuso in altre parti dell’organismo. La diagnosi precoce, che darebbe una prognosi migliore, è invece rara e avviene per lo più in modo casuale, quando il tumore viene scoperto durante gli esami per altri disturbi. Le opzioni terapeutiche efficaci non sono molte e spesso i pazienti le esauriscono prima di spegnersi. Proprio come è successo al padre di Kirsten Bryant, che ha lavorato in prima persona la nuova ricerca, spinta dalla volontà di trovare delle alternative valide per i futuri pazienti.

Una strategia per “affamare il tumore”

Come descritto nell’articolo, le cellule del cancro al pancreas presentano mutazioni caratteristiche in un gene chiamato Kras, anomalie che causano la continua divisione cellulare e determinano la crescita incontrollata. Questa crescita in genere è sostenuta da diversi processi energetici, tra i quali l’autofagia. “L’autofagia è un processo attraverso il quale le cellule cancerose riciclano materiali”, spiega Channing Der dell’Università del Nord Carolina, tra gli autori dello studio. “Invece di eliminarli, li riutilizzano come fonte di sostanze nutritive”.

In un primo momento i ricercatori ritenevano che proprio le mutazioni di Kras predisponessero le cellule del cancro al pancreas a ricorrere con più frequenza all’autofagia, e che pertanto una strategia per colpire il tumore potesse essere quella di bloccare il processo attraverso uno specifico inibitore (l’idrossiclorochina). L’approccio, però, ha dato scarsi risultati: il tumore continuava a alimentarsi attraverso altre vie – in particolar modo la glicolisi, che permette di ricavare energia dalla scissione del glucosio. Il punto di vista andava cambiato.

“Quello che abbiamo poi scoperto è che se blocchiamo la fonte principale di sostentamento energetico – cioè la glicolisi – la cellula cancerosa inizia davvero a soffrire, e sarà costretta a ricorrere all’autofagia”, continua Der. “Trovare un modo per rendere i tumori del pancreas più dipendenti dall’autofagia, li avrebbe resi di conseguenza più sensibili all’inibitore”.

Ma come riuscirci? A sorpresa, proprio bloccando la via di segnalazione di Kras.
“Se si utilizza un farmaco per bloccare il percorso di Kras, si paralizza la capacità delle cellule tumorali di utilizzare altre fonti energetiche”, chiarisce Der. “La combinazione di questo farmaco con l’inibitore dell’autofagia, l’idrossiclorochina, è risultata una strategia molto efficace nell’affamare il tumore”.

I risultati sono molto promettenti, specialmente alla luce del fatto che per il cancro al pancreas non esistono molte strade terapeutiche da poter percorrere. La ricerca condotta dal team di Der, dunque, costituisce un buon punto di partenza verso lo sviluppo di nuovi approcci clinici.

Dal laboratorio al paziente

Le evidenze di laboratorio sono state così significative che il team di Conan Kinsey e di Martin McMahon, ricercatori dello Huntsman Cancer Institute dell’Università dello Utah che hanno collaborato al progetto, ha non solo confermato le conclusioni dei colleghi ma è andato oltre, trasferendo la sperimentazione dalle cellule in vitro a un paziente, per uso compassionevole. “Siamo passati dalla capsula di Petri a un paziente in meno di due anni”, commenta McMahon, tra i firmatari di unarticolo sullo stesso numero di Nature Medicine, “Una tempistica che raramente si vede nella scienza medica”.

“Nel nostro articolo, mostriamo la risposta di un paziente affetto da cancro al pancreas che era già stato sottoposto a un intervento chirurgico e a diverse linee di chemioterapia prima di provare questa combinazione farmacologica”, racconta Kinsey, che era anche il medico del paziente. “Anche se alla fine è deceduto per la malattia, il paziente ha comunque avuto una risposta molto positiva a questi farmaci per diversi mesi”.

Prospettive future

Visti i buoni risultati in vitro e i dati molto preliminari sul paziente, i ricercatori prevedono che una sperimentazione clinica verrà ampliata coinvolgendo più centri di ricerca e di cura, tra cui proprio il Lineberger Comprehensive Cancer Center dell’Università del Nord Carolina e dell’Anderson Cancer Center dell’Università del Texas. Scopo degli studi che prenderanno il via in futuro è confermare la risposta positiva alla nuova terapia farmacologica combinata in altri pazienti, e identificare quei malati che potrebbero trarre il maggior beneficio.

I tumori al pancreas, infatti, non sono tutti uguali e un altro ramo della ricerca nel settore si sta concentrando proprio sull’identificazione delle firme genetiche che permettano di predire se una determinata neoplasia sia suscettibile a questa o quell’altra terapia. Secondo un ampio studio sul genoma del tumore al pancreas condotto dall’Università di Pittsburg (e apparso di recente su Gastroenterology) nel 17% dei casi è già possibile identificare dei marcatori che consentano di indirizzare i pazienti verso la terapia più appropriata.

La comunità scientifica, dunque, concorda: un approccio “taglia unica” non può dare reali progressi.

Riferimenti: Nature Medicine 1; 2 –University of Pittsburg



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