Chi ha paura di quello spettro?

Lo scorso 18 giugno, negli Stati Uniti, il biologo Robert P. Liburdy è stato condannato per frode scientifica: secondo i componenti la commissione del National Institute of Health, avrebbe sistematicamente distorto dati scientifici per diffondere l’ipotesi che i campi elettromagnetici fanno ammalare di cancro. E dalle pagine del Wall Street Journal del 2 agosto, il presidente dell’American council on science and health, Elisabeth Whelan, ha invitato i governi e i media ad esercitare un controllo più serrato sugli scienziati che usufruiscono di finanziamenti pubblici. Pochi giorni dopo, il 6 agosto, in Italia, il ministro dell’ambiente Edo Ronchi ha inviato ai presidenti delle regioni e agli esercenti di elettrodotti una circolare che prescrive limiti più rigidi per l’emissione di radiazioni elettromagnetiche in prossimità delle scuole. A motivare questa circolare è in primo luogo un rapporto dell’Istituto superiore di sanità (Iss), secondo il quale esiste una convergenza degli studi internazionali nell’individuare una correlazione fra il vivere vicino a linee ad alta tensione e il manifestarsi di casi di leucemia infantile. Contestualmente, però, l’Iss afferma che non esiste una “documentata causalità”.

Da un lato, dunque, una sentenza americana suggerisce di diffidare dei risultati delle ricerche sull’elettrosmog; dall’altro un governo europeo impone normative stringenti, basandosi proprio su questi risultati. Ma qual è effettivamente lo stato attuale della ricerca? Da circa vent’anni la scienza cerca di chiarire se i campi elettromagnetici che ormai pervadono il nostro mondo costituiscono un rischio per la salute. I primi sospetti sulla loro nocività furono sollevati alla fine degli anni ‘70 da uno studio americano che trovò una relazione tra l’esposizione ai campi elettromagnetici prodotti dalle linee elettriche e l’insorgenza della leucemia infantile. Questi risultati suscitarono grande scalpore e diedero il via a un filone di ricerca tuttora molto attivo. Si tratta di indagini a carattere epidemiologico, che cercano cioè di stabilire, su base statistica, una precisa relazione tra l’esposizione all’agente sospetto (in questo caso i campi elettromagnetici) e l’insorgenza di malattie nella popolazione. Purtroppo, però, proprio per la sua natura statistica, questo tipo di ricerche non può offrire risposte definitive, specie quando non emergono legami forti tra l’agente indagato e la patologia, come nel caso delle indagini sull’elettrosmog.

Gli studi epidemiologici che si sono susseguiti nel corso degli anni hanno dato risultati contraddittori, e non di rado sono stati criticati per le metodologie seguite. Una delle questioni più controverse riguarda il modo in cui si devono calcolare l’esposizione e la dose di radiazioni assorbita dalle persone. Un’altra difficoltà delle indagini epidemiologiche è quella di escludere che possano essere altri fattori a causare l’insorgenza della malattia come, per esempio, una predisposizione genetica o l’esposizione a sostanze cancerogene di cui ancora non si conosce la pericolosità. Le pur numerose indagini condotte sinora non sono riuscite a dare queste conferme ma solo ipotesi per nuovi studi. Le ricerche disponibili al riguardo sono ancora insufficienti per numero, qualità e consistenza per permettere conclusioni di qualsiasi tipo sugli effetti a lungo termine.

Per comprendere la difficoltà della scienza a dare risposte certe sui rischi dell’esposizione ai campi elettromagnetici bisogna ricordare che finora non è stata scoperta la prova biologica che confermi i sospetti dell’epidemiologia. In altri termini, non si sa in quale modo, attraverso quali meccanismi chimico-biologici, i campi elettromagnetici possano innescare nelle cellule i processi degenerativi che portano allo sviluppo di tumori. Le ipotesi avanzate non hanno trovato finora conferme.

D’altronde è anche vero che l’Onu ha formulato un “principio cautelativo” secondo il quale, anche se il rischio è solo ipotetico, ci si deve adoperare affinché vengano stabiliti dei limiti di assoluta sicurezza per l’esposizione ad agenti sospetti. Non bisogna, insomma, aspettare che la scienza dimostri la nocività delle radiazioni per dettare delle precauzioni.

Se quindi da un lato è importante aderire al principio di cautela (in Italia, proprio in questi giorni, è in discussione alle camere la legge quadro sull’elettrosmog), dall’altro è necessario considerare con attenzione eventuali risultati allarmistici; come spiega infatti Elisabeth Whelan, “gli scienziati, se dicono che qualcosa è innocuo, hanno paura di non trovare spazio nelle pubblicazioni e di non vedersi rinnovati i fondi per la ricerca”. L’errore di Liburdy – è stato fatto notare sui media statunitensi – è costato milioni di dollari al governo Usa, spesi in interventi per mitigare l’esposizione ai campi elettromagnetici. E sarebbe proprio il danaro la ragione della presunta truffa: i risultati della ricerca fruttarono infatti al suo autore finanziamenti per 3,3 milioni di dollari.

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