Chi resta fuori dalla scienza?

Siete donne? O giovani appena usciti dall’università? O magari appartenete a una minoranza etnica? E allora avrete vita dura anche nel mondo scientifico. Perché anche quello che dovrebbe essere l’ambiente dell’obiettività e della razionalità per eccellenza è ancora oggi intriso di pregiudizi e discriminazioni. Lo denunciano quattro studiosi (tre uomini e una donna) con altrettanti interventi pubblicati sull’ultimo numero di Nature che prende in esame le strategie che diversi paesi, dagli Stati Uniti all’Europa, adottano per cercare di contrastare tendenze secolari che chiudono le porte della scienza ai “deboli”.

A sorpresa, uno dei paesi con la più bassa percentuale di donne insegnanti o ricercatrici è la civilissma Germania. E le motivazioni sembrano più di carattere culturale che istituzionale. Recentemente infatti ci sono stati tentativi da parte del governo per introdurre leggi per la pari opportunità o programmi che promuovano le donne nella ricerca. Ma anche se queste iniziative hanno portato a un aumento del numero di donne che si iscrivono all’università e a un incremento delle borse di studio per abilitarle all’insegnamento, la percentuale dei docenti di sesso femminile rimane comunque bassa: i posti di prestigio sono ancora privilegio maschile. Il ricambio del 50% dei professori previsto entro il 2005 potrebbe essere un’occasione per dare più spazio alle donne. Ma bisognerà vedere se il progetto del Ministro della scienza Jurgen Ruttgers, di lasciare alle donne il 20% delle posizioni di maggiore responsabilità in ambito accademico, verrà realizzato. In Svezia, negli Stati Uniti e in Canada la situazione è simile: le donne abbandonano la ricerca più spesso degli uomini e così, alla fine del percorso che va dalle scuole alle carriere universitarie, sono poco rappresentate.

Se le donne che fanno scienza sono ancora poche, secondo la sociologa Elisabeth Pugel la colpa è dell’educazione familiare e degli insegnanti che “appartengono ancora a una generazione che non dava importanza all’educazione scientifica delle ragazze”. Ma c’è un altro modo di spiegare la situazione. Secondo Caroline Kane, biochimica dell’Università della California a Berkeley, “gli uomini e le donne hanno un modo diverso di fare scienza. C’è una tendenza dei maschi alla competitività sfrenata, mentre le donne tendono a essere più collaborative”. D’altra parte molte organizzazioni scientifiche spingono e privilegiano l’individualismo e la competizione, favorendo così gli uomini.

Questa è l’interpretazione del fenomeno di studiose femministe come Londa Schiebinger, storica della scienza alla Pennsylvania State University, o Sue V. Rosser, docente di medicina preventiva nell’Università del South California, o Anne Faust-Sterling, biologa della Brown University, che propongono di ripensare la nozione stessa di scienza. E nell’ottica di una teoria della differenza rientra anche la questione più controversa: se l’approccio degli uomini alla scienza sia diverso da quello delle donne.

Se per il gentil sesso la situazione non è rosea, per le minoranze etniche è decisamente critica. Negli Stati Uniti gli afroamericani, gli indiani d’America e i latinoamericani, tendono addirittura a non cominciare gli studi scientifici. Secondo i dati del National Science Fundation, solo il 4% degli scienziati o ingegneri appartengono a queste categorie che globalmente rappresentano invece un quarto della popolazione statunitense.

Spesso i giovani appartenenti a queste minoranze sono i primi nella loro famiglia o nel loro contesto sociale a intraprendere studi universitari. Si trovano davanti a corsi tradizionali di chimica, matematica, biologia o fisica, progettati per facilitare chi ha già un solido background socioculturale. “I modelli accademici selezionano e aiutano ad aver successo gli studenti che rispondono ai canoni della facoltà e ciò discrimina i diversi”, afferma John Matsui, direttore del programma di biologia all’Università della California a Berkeley, “inoltre spesso i corsi introduttivi non hanno nessun legame con le carriere: non è chiaro cosa farà un biologo o un fisico. Chi non ha esempi da seguire parte quindi svantaggiato”.

Un altro circolo vizioso che tende a escludere il diverso e il nuovo dal mondo della scienza è quello della distribuzione dei finanziamenti alle ricerche. Assegnando premi e sovvenzioni solamente a chi ne ha già ricevuti, come fa il National Institute of Health degli Stati Uniti, si distrugge la creatività, si favorisce il previsto rispetto all’imprevisto e si spingono i giovani a lasciare la ricerca. Eppure basterebbe adottare strategie minime per difendere la “piccola scienza”: è stato calcolato che se l’Nih limitasse a un massimo di due il numero di premi, potrebbe ricavare fondi da ridistribuire a 3 mila nuovi progetti.

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