Chiariti i meccanismi d’azione del talidomide

Dopo la seconda guerra mondiale in Germania fu realizzato un sedativo “talmente sicuro” che potevano usarlo anche le donne incinte. Si tratta dello stesso farmaco, conosciuto con il nome di talidomide, che nel giro di pochi anni portò alla nascita di oltre 10000 bambini con gravi malformazioni – come ricorda una lettera pubblicata nel 1961 dal Lancet, in cui un medico faceva notare l’eccessivo aumento di neonati con anomalie multiple partoriti da donne che avevano assunto il farmaco in gravidanza – e al successivo ritiro dal commercio. La storia del talidomide non finisce qui: negli anni ’90 fu scoperta la possibilità di utilizzare il farmaco per combattere il mieloma multiplo, un tumore del sangue. Da allora sono stati fatti numerosi studi per comprendere il meccanismo del “sedativo tedesco”: una ricerca appena pubblicata sulla rivista Nature è riuscita finalmente a fare luce sulla sua azione.

Il talidomide, a livello cellulare, interagisce con un enzima noto come ubiquitina-proteina ligasi (E3), un sistema di degradazione proteica che utilizza una piccola proteina regolatoria chiamata ubiquitina (da qui il nome dell’enzima), attraverso il complesso proteico Ddb1-Crbn. La scoperta fatta dagli scienziati del Friedrich Miescher Institute for Biomedical Research, coordinati da Nicolas Thomä, indica che, a seconda della tipologia della cellule, il talidomide è in grado di attivare o inibire Ddb1-Crbn.

In caso di attivazione del complesso – importante per il trattamento del mieloma multiplo – viene promosso il legame tra l’ubiquitina e due proteine (Ikaros e Aiolos), permettendo così a E3 di svolgere il suo compito di degradazione proteica. In caso di inibizione del complesso, invece, non si forma il legame tra Ddb1-Crbn e uno dei suoi substrati, Meis2. Il talidomide impedendo il legame di Meis2, identificato dagli scienziati come una proteina coinvolta in vari aspetti dello sviluppo umano, rende impossibile la sua degradazione.

“Siamo convinti che la nostra scoperta fornisca prove evidenti di come il talidomide e i suoi derivati possano portare sia effetti clinici positivi che estremamente negativi”, sostiene Thomä, “È solo facendo esperimenti come questo che, in futuro, saremo capaci di produrre composti progettati per migliorare i benefici e minimizzare gli effetti negativi”.

Riferimenti Nature doi:10.1038/nature13527
Credits immagine: Duckwailk/Flickr

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