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Cinque miti da sfatare sul cervello

Il cervello, macchina misteriosa e sconosciuta. Non è un caso quindi che nei prossimi anni in Europa con lo Human Brain Project e in America con l’iniziativa Brain (targata Obama), una buona parte della ricerca tenterà di comprenderne i meccanismi di funzionamento, investendo ingenti capitali. Forse è anche per questo, perché la scienza ne sa ancora troppo poco, che col tempo – parallelamente alle piccole conquiste dei ricercatori – si sono accumulati una serie di miti sul cervello e sul suo modus operandi.  Eccone alcune dei più diffusi, duri a morire.

Utilizziamo solo il 10% del nostro cervello
A quanto pare, rintracciare l’origine di questa affermazione – così diffusa da contare anche una pagina di Wikipedia tutta dedicata – non è facile. Sembra tuttavia probabile che sia nata, in qualche modo, a partire dagli inizi del ventesimo secolo, quando lo psicologo William James avrebbe affermato:Facciamo uso solo di una piccola parte delle nostre risorse fisiche e mentali”. In realtà altro non si tratta che di una credenza. Le scansioni cerebrali mostrano infatti che a prescindere del compito che stiamo svolgendo non ci sono aree inattive, ma solo aree più attive di altre. E ancora la mappatura del cervello che ha dimostrato come non esistono aree in attesa di ruoli, ovvero che non siano state correlate a specifiche funzioni. Ma anche il fatto che praticamente non esistono danni cerebrali che non abbiamo ripercussioni sulle funzionalità individuali suggerisce che quello del funzionamento al 10% sia solo un falso mito. E infine perché, evolutivamente parlando, la selezione naturale avrebbe mantenuto un cervello in gran parte dormiente?

Creativo o razionale, di che emisfero sei?
Tom Bennet, docente britannico che si occupa di neuroscienze e insegnamento, le chiama personalità polarizzate, riferendosi all’idea che la preponderanza di atteggiamenti creativi piuttosto che logici in alcune persone siano dovute alla dominanza di un emisfero piuttosto che dell’altro (rispettivamente, nel caso citato, di quello destro su quelle sinistro). Eppure, come una recente ricerca pubblicata su Plos One ha dimostrato, sebbene i due emisferi assolvano funzioni specifiche, le persone non tendono ad avere network cerebrali più sviluppati a sinistra o destra, suggerendo quindi che non via siano legami tra personalità ed emisferi, che lavorano insieme in modo complesso. Questa convinzione sembrerebbe nata da un’interpretazione alterata del lavoro del premio Nobel Roger Sperry, che aveva studiato la specializzazione emisferica in individui in cui i due emisferi non erano più connessi tra loro.

Immagini o video: a ognuno il suo stile di apprendimento
Bennet su New Scientist ricorda il metodo Vark (acronimo di Visual, Auditory, Read-write, Kinaesthetic, a identificare rispettivamente i diversi tipi di apprendimento: visivo, uditivo, scrittura-lettura e cinestetico), proposto dall’insegnante neozelandese Neil Fleming. La teoria prevede che ognuno abbia il proprio metodo di apprendimento e che riesca meglio a far proprie le diverse nozioni se rappresentate attraverso canali specifici. La teoria degli stili di apprendimento, che ha influenzato anche i sistemi stessi di insegnamento, ha però raccolto diverse critiche, a partire dai metodi usati per identificare i vari metodi di apprendimento e per la mancanza di studi scientifici a supporto delle teoria. Nel 2008, a proposito, una rivista dell’Association of Psychological Science scriveva che al momento non esistevano “basi scientifiche adeguate per giustificare l’incorporazione di valutazioni sugli stili di apprendimento nella pratica educativa generale”.

Le abilità cerebrali declinano passati i 40
Se è vero che apprendere una nuova lingua o memorizzare testi, sequenze, immagini e quant’altro risulterà più difficile a chi è più in là con gli anni rispetto a un adolescente, alcune abilità col passare del tempo migliorano. Per esempio aumentano le capacità linguistiche (riferite soprattutto al vocabolario), quelle di risolvere situazioni conflittuali e di gestire le emozioni.

Il cervello funziona come un computer
Le similitudini tra cervello e computer sono tra le più popolari per il misterioso organo: d’altronde, entrambe le macchine sostanzialmente ricevono input che elaborano per fornire degli output. Ma lo fanno in maniera totalmente diversa. Basti pensare al processo visivo, che non è una mera ricezione di stimoli luminosi ma una complessa azione in cui si integrano diverse informazioni del mondo circostante, in modo che le persone riescano, per esempio, anche a elaborare anticipazioni su quanto succederà in futuro. La similitudine con i computer non si ferma qui: spesso infatti ci si riferisce al cervello come un insieme di circuiti elettrici stabiliti, con funzioni specifiche. In realtà il nostro cervello è una struttura estremamente plastica, capace di adattarsi – anche fisicamente – al cambiamento. Un esempio per tutti? La capacità delle aree normalmente deputate a elaborare le informazioni sonore di specializzarsi a percepire il tatto e la visione nelle persone sorde; o allo stesso modo la specializzazione della corteccia visiva nell’elaborare i segnali udivi e tattili nei ciechi.

Via: Wired.it

Credits immagine: TZA/Flickr

Anna Lisa Bonfranceschi

Giornalista scientifica, a Galileo Giornale di Scienza dal 2010. È laureata in Biologia Molecolare e Cellulare e oggi collabora principalmente con Wired e La Repubblica.

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