Combattere l’obesità cambiando la flora intestinale

Dimmi che batteri hai e ti dirò che malattie avrai. In futuro potrebbe non essere così strano predirre lo stato di salute studiando la composizione del proprio microbioma. Secondo due ricerche pubblicate su Nature, infatti, l’analisi dei batteri intestinali permetterebbe di individuare le persone ad alto rischio di complicazioni dovute all’obesità.

L’obesità è ormai un’emergenza globale. Nel 2005 circa 400 milioni di persone nel mondo erano obese e si prevede che nel 2015 saranno oltre 700 milioni. L’impatto maggiore sulla salute è dovuto alle comorbidità associate all’obesità, tra cui le più comuni sono ipertensione, diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari. Non tutti gli individui obesi, però, sviluppano queste complicazioni e fra i vari fattori di suscettibilità identificati il microbioma intestinale sembra avere un ruolo importante (Vedi Galileo: Quei batteri che fanno ingrassare).

Per capire meglio quale fosse il ruolo della flora intestinale, i ricercatori dell’Università di Copenaghen guidati da Oluf Pedersen hanno sequenziato e quantificato i geni espressi dai batteri intestinali presenti nelle feci di 292 persone, di cui 169 obese e 123 non obese. Con questo approccio di “metagenomica quantitativa”, gli autori hanno identificato due gruppi di individui obesi, quelli con un numero basso di geni e quindi di batteri, Lgc (low gene count, numero di geni <480,000) e quelli con un numero alto di geni, Hgc (high gene count, > 480,000).

Gli individui Lgc avevano un microbioma intestinale alterato rispetto a quelli Hgc, meno abbondante (equivalente a circa il 40%) e contenente popolazioni microbiche diverse. Dei 46 gruppi batterici differenzialmente espressi, quelli con caratteristiche anti-infiammatorie o associati a una maggiore produzione di acidi organici, come l’acido lattico, erano più abbondanti negli Hgc, mentre quelli con caratteristiche pro-infiammatorie o produttori di metaboliti tossici, lo erano negli individui Lgc. Da un punto di vista funzionale poi, un microbioma meno ricco era associato più frequentemente a dislipidemie, iperglicemie, diabete di tipo 2 e reazioni infiammatorie, e a un maggiore accumulo di peso

La composizione del microbioma però non è statica, e può essere modificata da diversi fattori ambientali tra cui la dieta. Per capire quale fosse l’effetto della dieta, Stanislav Dusko Ehrlich e i suoi collaboratori presso l’Istituto Nazionale della Ricerca Agronomica in Francia, hanno analizzato la composizione del microbioma di 45 persone obese (18 di tipo Lgc e 27 Hgc) sottoposte per sei settimane a una dieta a basso valore energetico ricca di proteine e fibre, seguite da sei settimane di mantenimento. La riduzione dell’apporto calorico influenzava sia le caratteristiche fisiologiche che la composizione della popolazione batterica intestinale dei soggetti Lgc, con perdita di peso, aumento dei livelli di insulina, riduzione dei trigliceridi. Tutto questo associato a un aumento della complessità del microbioma intestinale che si manteneva durante le 12 settimane. Nei 27 individui Hgc invece la dieta non sembrava avere un effetto significativo.

Secondo gli autori, in futuro si potrebbe sviluppare un test che permetterebbe di identificare i pazienti ad alto rischio di comorbidità associate all’obesità (in pratica identificare i soggetti Lgc). Infatti, nonostante gli inividui Hgc esprimano molti più geni batterici degli individui Lgc, il numero di specie batteriche che permettono di differenziare i due gruppi è piuttosto limitato (10 e 18, rispettivamente nei due studi). In questi modo, i pazienti ad alto rischio potrebbero essere sottoposti a diete ricche di proteine e fibre che non solo favorirebbero la perdita di peso, ma ricostituirebbero un microbioma intestinale ricco e ridurrebbero il rischio di complicazioni fatali.

Riferimenti: Nature Doi: 10.1038/nature12506; Doi: 10.1038/nature12480

Credits immagine: Tobyotter/Flickr

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