Come cambiano le pubblicazioni scientifiche

Dal febbraio dell’anno scorso, sono 13.370 i ricercatori che hanno aderito alla petizione online “The cost of knoledge”, protestando così contro le politiche commerciali di Elsevier, uno dei principali gruppi editoriali in campo scientifico (vedi Galileo: Gli scienziati contro le riviste scientifiche). Dopo oltre un anno, la protesta non accenna a placarsi: il confronto tra le classiche riviste a pagamento e i sempre più diffusi giornali open access (consultabili liberamente su Internet) continuano ad alimentare un dibattito che vede, da un lato, ricercatori, università e istituzioni pubbliche schierati per un libero (o almeno economico) accesso alle ricerche da parte della comunità scientifica; dall’altro gli editori, convinti che i guadagni siano una garanzia di qualità per gli studi scientifici da loro pubblicati. All’argomento è dedicato uno speciale apparso sull’ultimo numero di Nature, che svela come questi attriti stiano modificando profondamente il panorama dell’editoria scientifica.

Sono ben due le riforme importanti previste per quest’anno. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Obama ha dichiarato che le pubblicazioni di studi scientifici che hanno ricevuto fondi governativi dovranno tassativamente essere rese pubbliche entro 12 mesi dalla pubblicazione dei risultati, mentre dal primo aprile in Inghilterra le ricerche finanziate con soldi pubblici saranno necessariamente pubblicate su riviste open access. Il mondo della ricerca farà dunque un ulteriore passo in avanti in direzione della libera condivisione dei risultati scientifici.

I giornali scientifici tradizionali d’altronde fanno pagare costi molto alti a università ed istituti di ricerca per garantire l’accesso agli articoli scientifici ai loro ricercatori. La maggior parte del lavoro editoriale però, affermano gli scienziati, consiste nella peer review, il controllo degli articoli da parte di esperti anonimi per garantirne l’accuratezza, un lavoro che gli scienziati svolgono gratuitamente. L’alto prezzo delle riviste sarebbe dunque ingiustificato, perché la maggior parte del lavoro editoriale non rappresenta una spesa per l’editore. Da qui l’idea delle riviste ad accesso libero, dove a pagare sono i ricercatori che pubblicano l’articolo, o dei finanziatori, mentre i contenuti sono disponibili gratuitamente.

Anche i costi di pubblicazione però possono rappresentare un problema, perché sottraggono fondi ai badget dei progetti di ricerca, e perché anche nel caso delle riviste open access è spesso difficile comprendere a cosa siano dovuti. In uno degli articoli, Richard Van Noorden, assistent editor di Nature, spiega come i prezzi siano infatti oscuri ed estremamente variabili. Se pubblicare un articolo sulla rivista Cell Reports costa circa 5.000 dollari, su Plos One, altro importante giornale ad accesso libero, si spendono invece solamente 1.350 dollari, mentre la recente Peer j chiede solamente 299 dollari una tantum, per la possibilità di pubblicare a vita sulla rivista.

Inoltre, l’esplosione delle riviste open access ha dato vita a vere e proprie truffe editoriali, come si scopre in un articolo del reporter di Nature Declan Buttler. I “predatori dell’open access”, così li definisce il giornalista, sono riviste che fanno pagare ai ricercatori alti costi di pubblicazione, fornendo però in cambio un servizio editoriale scadente. Nel 2012 il fenomeno sarebbe esploso, e le riviste predatrici avrebbero infatti pubblicato il 5-10% di tutti gli articoli a consultazione libera apparsi durante l’anno. Secondo Jeffrey Beall, bibliotecario della University of Colorado ed esperto dell’argomento, il pericolo non andrebbe sottovalutato, perché potrebbe presto infettare tutto il mercato dell’open access.

Come risolvere allora i problemi dell’editoria scientifica? Una proposta radicale è contenuta nel commento di Jason Priem, scienziato dell’informazione della University of North Carolina. I giornali peer review sarebbero infatti nati per garantire agli scienziati l’accesso a dati e ricerche la cui correttezza è garantita da un sistema di controllo che passa per editor e revisori, ma avrebbero ormai esaurito il loro ruolo. “Stiamo assistendo alla transizione verso un nuovo sistema di comunicazione tra esperti”, spiega Priem. In futuro, potrebbe essere infatti possibile utilizzare strumenti e algoritmi computerizzati per filtrare i contenuti scientifici nello stesso modo in cui oggi sono controllati dalle peer review.
 
In questo modo sarebbe possibile pubblicare direttamente i risultati delle ricerche su Internet, affidandosi poi ai filtri web per organizzare i dati e valutarne l’accuratezza: “Quello che le riviste facevano per un singolo prodotto formale, l’articolo, il web oggi può farlo per l’intero ramo della produzione scientifica. L’articolo è un tentativo di cristallizzare e mettere in mostra alcune parti del processo di ricerca. Il web apre invece una finestra che permetterà di disseminare la conoscenza mentre viene scoperta, distruggendo la distinzione artificiale tra processo e prodotto”, conclude Priem.

Riferimenti: Nature

Credits immagine: jepoirrier/Flickr

2 Commenti

  1. Caro Simone,

    Io faccio molto volentieri, sempre rigorosamente gratis, il mio lavoro di peer reviewer per quelle riviste che mi hanno dato la loro fiducia. Tra i revisori e gli editori si instaura -appunto- un rapporto fiduciario, e da un editore di una delle riviste per cui presto servizio ho appreso dei concetti che potrebbe essere utile condividere qui, in coda al tuo articolo, a proposito di “[…] L’alto prezzo delle riviste sarebbe dunque ingiustificato, perché la maggior parte del lavoro editoriale non rappresenta una spesa per l’editore.”

    I costi di gestione di un buon servizio editoriale -mi spiegava questo editore- non sono trascurabili. Bisogna viaggiare per participare ai congressi, per restare così aggiornati sui temi di cui tratta la rivista, scovare, ai congressi, autori che possano scrivere degli articoli “Review”, quelli che riceveranno più citazioni perché descrivono lo stato d’avanzamento in una data disciplina.
    Dietro una rivista c’è poi un ufficio editoriale, con portali web di non semplicissima realizzazione, la loro manutenzione, la gestione della “comunità” dei lettori, oramai indispensabile se si vuole restare al passo dell’editoria “partecipativa”, etc. Son tutte cose che richiedono personale, quindi costi. Cio’ detto, io non conosco la soluzione per il problema dei costi di accesso ai risultati scientifici.
    Mi limito solo a precisare che i costi ci sono, e non sono trascurabili, per cui la formula Open Access non può essere sinonimo di gratuità.
    Mi auguro che il peer review continui ad essere un servizio gratuito. Funziona benissimo così.

  2. @Pinto
    Non conosco la situazione della fisica, ma qualche considerazione generale posso farla. Il fatto che un referee si presti volentieri è perfettamente irrilevante. Qui si tratta di prendere atto (senza possibilità di smentita credo) che nella grande editoria scientifica chi produce i contenuti scientifici (gli autori) e chi li seleziona e ne garantisce la qualità (i referee/revisori) presta la propria opera gratuitamente, anzi spesso, nel caso degli autori, contribuendo di tasca propria. Visto che gli editori in questione sono aziende commerciali che fanno profitti (ingenti nel caso di Elsevier) ognuno può trarre le conclusioni che crede rispetto alla desiderabilità di questo stato di cose. Rispetto al principio che comincia a farsi strada in varie legislazioni per cui pubblicazioni scientifiche che ricevono finanziamenti pubblici devono essere accessibili pubblicamente direi che si tratta di uno sviluppo desiderabile e inevitabile, seppure tardivo. Soluzioni Open Access avrebbero costi contenuti che potrebbero alla peggio essere sostenuti dagli autori stessi, ma con un po’ di lungimiranza da parte delle istituzioni pubbliche e private che finanziano la ricerca potrebbero anche, queste sì, ricevere finanziamenti che ne coprano i costi senza profitti per alcuno.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here