Come si sbriciola un Paese

L’ultima volta è accaduto in Campania pochi giorni fa: la statale che collega Napoli a Sorrento è franata trascinando con sé quattro persone. Sempre a Napoli, solo qualche settimana prima, una voragine apertasi all’improvviso aveva inghiottito un furgone intero e i suoi due occupanti. In Umbria, 57 comuni su 92 hanno denunciato alla Regione danni di varia entità provocati dalle frane. Insomma, seguendo le cronache di quest’inverno sembra che l’Italia si stia sbriciolando sotto i nostri piedi. Senza contare le catastrofi (frane, smottamenti e allagamenti) che negli anni scorsi hanno puntualmente colpito la Valtellina, il Piemonte e la Liguria. A cosa è dovuta questa impressionante catena di incidenti? Per saperne di più Galileo ha intervistato Fausto Guzzetti, ricercatore dell’Istituto per la protezione idrogeologica dell’Italia centrale, del Consiglio nazionale delle ricerche di Perugia, e tra i coordinatori del Progetto Avi (Aree vulnerate italiane), uno studio che basandosi sulle cronache giornalistiche e sulla memoria dei testimoni diretti ha censito in una mappa le frane e le innondazioni che hanno colpito l’Italia negli ultimi ottant’anni. Dottor Guzzetti, l’attenzione che la stampa ha rivolto negli ultimi mesi agli incidenti idrogeologici corrisponde effettivamente a un aumento di questi fenomeni? “Dipende dalla scala temporale su cui si osservano questi eventi. Può darsi che rispetto all’anno scorso ci sia stato un aumento delle frane e delle innondazioni, ma è un periodo troppo breve per evidenziare una tendenza. Dal nostro censimento, effettuato su una finestra temporale di circa 80 anni, non sembra emergere un accrescimento del numero degli eventi calamitosi. E’ invece cresciuta nel pubblico la consapevolezza di questi fenomeni, e soprattutto sono aumentati i danni che possono provocare. Oggi ci sono più case, più strade, più infrastutture che possono essere colpite. Ecco perché se ne parla di più”. E’ possibile stimare un numero medio di incidenti all’anno? “Anche il numero di eventi registrati dipende dal metodo osservazione utilizzato. Per la mappa Avi ci siamo basati sui resoconti dei giornali e sui ricordi dei testimoni diretti. In questo modo abbiamo censito su tutto il territorio nazionale circa 12 mila siti colpiti da frane e 7 mila da inondazioni. Ma usando altri sistemi, le cifre cambiano. Per esempio osservando le fotografie aeree si possono riconoscere fenomeni molto più antichi, non registrati dai giornali. Con questo metodo, nei soli territori dell’Umbria e delle Marche, abbiamo censito oltre 28 mila eventi”. Dalla vostra mappa emergono le zone maggiormente a rischio? “Certamente la nostra ricerca ha individuato le aree colpite con maggiore frequenza nel corso degli anni. Ciò si evidenzia molto bene per i corsi d’acqua, per esempio, lungo i quali ci sono zone precise dove l’acqua fuoriesce dal letto molto più facilmente che altrove. D’altra parte non c’è regione italiana che non sia toccata dal problema. Vorremmo provare a sovrapporre la nostra carta con quella dei collegi elettorali. Siamo convinti che nessun parlamentare potrebbe dichiarare che il suo collegio è stato risparmiato da incidenti idrogeologici negli ultimi anni”. A parte le cause naturali, sulle quali non abbiamo comunque possibilità di intervenire, quali sono i fattori che determinano il dissesto idrogeologico? “I fattori sono diversi e variano anche da regione a regione. Innanzi tutto, come ho già ricordato, c’è stato un aumento della pressione della nostra società sul territorio: case, autostrade, ferrovie e così via. Anche se si fossero sempre rispettati i criteri di sicurezza, e sappiamo bene che non è stato così, il solo aumento delle infrastutture porta a maggiori rischi. Poi c’è la questione dello sviluppo agricolo. In molte zone l’impiego dei trattori permette di arare pendii che prima rimanevano incolti e ora l’acqua dilava più facilmente. Inoltre per facilitare il lavoro con le macchine, sono state spesso distrutte molte opere di drenaggio e di canalizzazione. Poi c’è cronica mancanza di lavori di manutenzione, quella straordinaria ma soprattutto quella ordinaria. Un esempio banale: la pulitura periodica delle canalette di scolo nelle strade di montagna. Vorrei infine sottolineare che a volte i danni causati dalle frane o dalle alluvioni non sono necessariamente dovuti al dolo, ma alla mancanza di dati precisi. Le autorità competenti non sono informate di quali sono le zone a rischio”. Cosa si è fatto e cosa resta da fare per migliorare la situazione? “Sicuramente negli ultimi 10 anni sono stati fatti notevoli passi avanti. La Protezione civile si è dotata di gruppi di consulenza per la difesa del territorio e le conoscenze scientifiche acquisite cominciano a essere “travasate” nell’applicazione pratica. Tuttavia c’è ancora una forte carenza di dati. La conoscenza e lo studio del territorio deve essere il più particolareggiata possibile, dovrebbe partire già a livello dei piani regolatori comunali. Non credo che la semplice imposizione di nuovi vincoli sia sufficiente a risolvere il problema: l’eccesso rischia di portare semplicemente alla loro inosservanza”.

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