Cosa farà il supercomputer Watson

Prendiamo tutte le informazioni che circolano online su come le persone cucinano in ogni angolo del mondo, sulle varianti dei piatti, sui gusti delle popolazioni. Le peschiamo dai social network, dai giornali e magari anche dagli antichi ricettari digitalizzati. Uniamoci il corpus delle conoscenze sulle proprietà organolettiche delle miriadi di varietà degli alimenti e su come questi interagiscono tra loro a livello chimico. Sì, parliamo di big data, e li mettiamo tutti in mano a Watson, quella frontiera del cognitive computing che Ibm sta presentando al mondo come l’inizio della nuova era dell’informatica. Quello che otterremo sarà un menù di alta cucina cognitiva. Il termine può incutere un certo timore finché non viene calato nella realtà: uno chef (ma anche una qualsiasi persona non particolarmente smart in cucina) chiede un paio di consigli su come creare un nuovo piatto, e dall’altra parte Watson gli risponde – sarebbe più corretto dire che parla con lui – e propone un paio di mix insoliti, a cui lo chef non avrebbe mai pensato, ma di sicuro successo. “È solo un esempio di come questa tecnologia può lavorare con le persone”, dice a Wired.it Mike Rhodin, senior vp di Ibm, ospite del Politecnico di Milano dove il 5 e il 6 maggio si sono tenuti gli Emea Academic Days 2014: una due giorni di serrato scambio di informazioni tra aziende e università, in cui Watson è stato decisamente protagonista. Sia per chi fa ricerca sia per chi fa business, in effetti, le prospettive sono allettanti.

Watson sfrutta le possibilità offerte dagli open big data: con la digitalizzazione del mondo fisico si continuano a generale dati che possono essere trasformati in informazioni. Informazioni che devono essere semplici da consultare e affidabili.

Ed ecco i due grandi vantaggi. Uno: i suoi algoritmi comprendono il linguaggio naturale degli esseri umani e l’interazione con il sistema è semplice, un ingrediente fondamentale affinché una tecnologia abbia successo (come ha dimostrato, ai tempi, il passaggio da MS-DOS a Windows). “Per ora il sistema parla solo inglese e in molti stanno spingendo affinché la prossima lingua sia il cinese”, rivela Rhodin. Serviranno un paio di anni almeno: “Non si tratta di fare semplici traduzioni, ma di capire la cultura di un popolo e di verificare se la mole di conoscenze pubblicate in quella lingua per i diversi campi sono sufficienti affinché la piattaforma generi risposte affidabili”.

E due: dopo una lunga fase di test, oggi l’affidabilità delle risposte (o, meglio, delle ipotesi) generate dal sistema quando viene posta una domanda su un qualsiasi dominio della conoscenza sfiora l’80%. Per confronto si pensi che l’attendibilità delle risposte ottenute solitamente da un call center arriva sì e no al 40%.

Un’altra fondamentale caratteristica di Watson è che continua a studiare, immagazzinare le informazioni e a integrarle: insomma a imparare proprio dall’interazione con noi umani. “Questo concetto delle persone e delle macchine che lavorano insieme sui problemi è molto importante – continua Rhodin – perché questo ecosistema è disegnato proprio per interagire con noi. È così che si generano risposte a domande che non avremmo potuto neanche immaginare se non ci fosse questa interazione”.

Dopo la dimostrazione in grande stile delle potenzialità di Watson, quando la piattaforma aveva battuto i suoi sfidanti umani nel popolare quiz televisivo americano Jeopardy!, dopo i primi esperimenti di utilizzo in campo medico e le prime collaborazioni con le aziende, ora il Watson Group è pronto a collaborare con gli sviluppatori di applicazioni mobile, cioè per smartphone e tablet.

L’Ibm ci sta investendo più di un miliardo di dollari. In pratica, tutto il sapere di Watson sarà a disposizione come servizio cloud per qualsiasi azienda, piccola o grande che sia. E per la fine del mese sono attesi i nomi delle prime app che verranno sviluppate. Quelle per la salute sono tra le più gettonate.

Ci sono tre principali interlocutori per Big Blue: le aziende che producono contenuti, quelle che producono informazioni attraverso i servizi che offrono e quelle che sviluppano applicazioni. “Il mio paradigma sono le grandi aziende, ma quando parlo con le piccole sono affascinato dalla loro creatività e dalle loro idee: vedono le opportunità offerte dai dati e dal loro utilizzo in modo diverso dalle grandi”. Per quanto riguarda le applicazioni, Ibm immagina un modello di business simile a quello che Apple ha sviluppato con Apple Store: cioè di riservarsi una parte del ricavato di ogni app che girerà su Watson.

Via: Wired.it

Credits immagine: Credits immagine: Sebastian Anthony/Flickr

Tiziana Moriconi

Giornalista, a Galileo dal 2007. È laureata in Scienze Naturali (paleobiologia) e ha un master in Comunicazione della Scienza conseguito alla Scuola Superiore di Studi Avanzati di Trieste. Collabora con D la Repubblica online, Salute SenoLe Scienze, Science Magazine (Ed. Pearson), Wired.it.

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