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Cosa vuol dire partecipare a uno studio clinico

Carlo aveva 67 anni quando cominciò ad avvertire un dolore continuo e intenso alla gamba sinistra: non riusciva più a camminare bene, né a dormire. I comuni anti-dolorifici non avevano alcun effetto. Il suo medico gli aveva allora prescritto una lastra. A quell’esame, però, ne seguirono altri: per primo una tac, che rivelò una possibile “lesione osteolitica secondaria”. Una metastasi all’osso. Ma di quale tumore? La risposta arrivò con la biopsia: lui, che non aveva mai fumato né aveva avuto problemi respiratori, nel giro di un mese si era ritrovato a dover fare i conti con un carcinoma polmonare al quarto stadio. All’inizio, la malattia sembrava rispondere bene alla cura standard (un farmaco a bersaglio molecolare, oltre alla radioterapia alla gamba, per controllare il dolore), ma dopo circa un anno, gli esami mostrarono nuove lesioni, segno che la cura non stava più funzionando. Bisognava cambiare. Una possibilità – gli disse la sua oncologa – era entrare in uno studio clinico. Carlo, infatti, presentava i requisiti richiesti per essere inserito in una sperimentazione: avrebbe potuto accedere a una cura sperimentale. C’era un “però”: Carlo viveva a Cagliari, in Sardegna, mentre lo studio si svolgeva a Torino. Valeva la pena, nelle sue condizioni, affrontare il viaggio e fare avanti e indietro per mesi, senza alcuna garanzia che la nuova cura sarebbe stata efficace? Gli sembrava di diventare una “cavia”. Però neanche l’alternativa – chemioterapia via endovena – gli piaceva granché. Decise di fidarsi della sua oncologa, senza capire fino in fondo a cosa stesse dicendo di sì e senza un’idea precisa di come funzionasse uno studio clinico.

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Tiziana Moriconi

Giornalista, a Galileo dal 2007. È laureata in Scienze Naturali (paleobiologia) e ha un master in Comunicazione della Scienza conseguito alla Scuola Superiore di Studi Avanzati di Trieste. Collabora con D la Repubblica online, Salute SenoLe Scienze, Science Magazine (Ed. Pearson), Wired.it.

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