Covid-19, rischi e benefici delle vaccinazioni nei più giovani

Come previsto, la Food & Drug Administration, ente regolatorio del farmaco statunitense, ha appena autorizzato la somministrazione d’emergenza del vaccino Pfizer-BioNTech sugli adolescenti. Una mossa che potrebbe presto essere replicata anche dall’Unione europea e che estenderà la campagna di vaccinazione ad altri milioni di persone, e su cui la comunità scientifica, al netto dei risultati dei trial clinici in corso e di quelli che verranno, sta facendo una riflessione di opportunità e di rapporto costi-benefici. In prima istanza, infatti, si potrebbe pensare che, una volta certi che il vaccino sia sicuro ed efficace sui giovanissimi così come sta dimostrando di esserlo sugli adulti, la scelta più naturale sia quella di procedere a vaccinare tutti, magari con l’obiettivo (che in verità appare sempre meno perseguibile) di raggiungere l’immunità di gregge. Ma a guardare meglio ci sono anche altri fattori, collaterali, da considerare, come hanno per esempio fatto notare tre esperti della Emory University di Atlanta e del Center for Infectious Disease Dynamics alla Pennsylvania State University in un editoriale da poco pubblicato sul British Medical Journal.


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Uno dei punti imprescindibili per comprendere meglio la questione sta anzitutto nel fatto che fino a questo momento, innegabilmente, i giovani e i giovanissimi sono stati risparmiati (in media) dalle forme più gravi della malattia: per questo motivo viene da chiedersi quali possano essere realmente i benefici di una protezione somministrata a un gruppo di persone che tipicamente soffrono della malattia in forma lieve, specie in virtù del fatto che anche i sistemi sanitari dei paesi più ricchi stanno cercando di centellinare le dosi disponibili e non sprecarne neanche una. Oltre alla protezione, c’è poi la questione della trasmissione: al momento non abbiamo abbastanza dati epidemiologici che ci consentano di capire se e quanto i giovani siano diffusori della malattia (e la discussione polarizzata riguardo all’apertura/chiusura delle scuole ne è un esempio lampante); e infine, dicono gli esperti, bisognerebbe anche tener conto delle differenze tra l’immunità indotta dal vaccino e quella indotta dall’infezione naturale sui soggetti più giovani, tema su cui sappiamo ancora troppo poco.

Al momento, i dati che abbiamo raccolto a livello globale suggeriscono che la gravità di Covid-19 nei bambini al di sotto dei 12 anni sia simile a quella dell’influenza: “Dal momento che il rapporto costi-benefici di una campagna di vaccinazione”, scrivono i ricercatori, “dipende dal peso della malattia nella popolazione cui saranno somministrati i vaccini e dalle risorse disponibili, e tenuto conto che le risorse sanitarie sono scarse perfino nei paesi ad alto reddito, è poco probabile che la vaccinazione dei bambini, in questo momento, sia una priorità”.

Ci sono però da tener presenti almeno altre due questioni: uno, il fatto che, per quanto raro, può accadere che un bambino sviluppi una forma grave di Covid-19 (al momento la stima di mortalità è di circa un caso su mille, anche se probabilmente è più bassa); due, il problema delle varianti: ora non sembrano essere particolarmente pericolose per bambini e adolescenti, ma potrebbero emergerne di diverse (come effettivamente avvenne per la Mers) e in questo caso le vaccinazioni pediatriche potrebbero diventare all’improvviso una priorità. E, ancora, sempre nell’ottica di una buona gestione delle risorse, una buona idea potrebbe essere quella di identificare, nella popolazione pediatrica (come d’altronde già fatto per la popolazione generale), dei sottogruppi particolarmente a rischio, per esempio i bambini che soffrono di obesità (che notoriamente predispone a sintomi più gravi della malattia) o quelli con marker infiammatori come la proteina C reattiva o l’interleuchina-6 sopra la norma (che potrebbe aumentare la probabilità di soffrire di sindrome infiammatoria multisistemica dopo aver contratto il Covid).

Veniamo a quello che probabilmente è il punto più importante e delicato, la questione della trasmissione del virus: quanto vi contribuiscono bambini e adolescenti? Sappiamo per certo che la vaccinazione di massa riduce significativamente i contagi, e sappiamo anche che bambini e adolescenti, generalmente, hanno più contatti sociali degli adulti: per queste ragioni, è lecito pensare che la vaccinazione dei più giovani possa ridurre la circolazione del virus proteggendo, a cascata, anche i soggetti più adulti. Tuttavia, c’è da tener conto anche del fatto che i bambini e gli adolescenti sembrano esser meno suscettibili degli adulti sia all’infezione che alla trasmissione (in Norvegia, per esempio, si è riuscito a tenere i contagi sotto controllo pur mantenendo aperte le scuole elementari). Al momento, sembra poco probabile che i giovanissimi siano super-diffusori del virus, e quindi è difficile stimare se la loro vaccinazione avrebbe un beneficio tangibile in termini di diminuzione della trasmissione; d’altra parte, c’è però da considerare che l’aumento dei tassi di vaccinazione negli adulti potrebbe indurre il patogeno a cercare nuove strade di diffusione proprio tra i giovani, trasformandoli in diffusori più significativi. Siamo nel campo delle ipotesi, chiaramente: tuttavia, per prevenire nuove ondate e nuovi focolai, è importante mettere sul tavolo tutte le possibilità e cercare di giocare d’anticipo.

Via: Wired.it

Immagine di Ali Raza via Pixabay

Sandro Iannaccone

Giornalista a Galileo, Giornale di Scienza dal 2012. È laureato in fisica teorica e collabora con le testate La Repubblica, Wired, L’Espresso, D-La Repubblica.

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