Decadenza e rinascita scientifica

Il ruolo che in passato la civiltà islamica ha svolto nello sviluppo del pensiero scientifico è noto a tutti, ma altrettanto noto è il fatto che, nell’era moderna e contemporanea, il mondo musulmano sembra avere abdicato totalmente a questo ruolo, non riuscendo più a tenere il passo con la rapida evoluzione che la scienza andava subendo nella cultura europea. L’Islam non ha assistito ad alcuna rivoluzione scientifica, almeno nel senso che siamo abituati ad attribuire a questa parola; eppure, per tutto il Medioevo, fu proprio la civiltà islamica la principale ispiratrice di un vasto e profondo movimento intellettuale che fornì all’Europa le chiavi di quella rivoluzione.

Ciò che viene comunemente definito come la “scienza araba”, ma che sarebbe più corretto definire “islamica”, dato che non ne furono solo gli Arabi i principali artefici, nei nostri manuali di storia della scienza o della filosofia è in genere considerata come l’anello di congiunzione fra la grande eredità del pensiero antico e l’era moderna. Questa visuale tende a ridurre il pensiero islamico ad una “funzione ancillare nei confronti della storia dell’Occidente”, come già denunciò Giorgio De Santillana. In effetti, se da una parte è errato attribuire ai Musulmani, come qualcuno ha fatto, una serie di teorie o scoperte scientifiche che erano in gran parte già note ai Greci o agli Indiani, altrettanto fuorviante è l’idea che l’Islam si sia limitato a trasmettere l’opera degli antichi pensatori senza aggiungervi alcuna originale elaborazione. Le elaborazioni e le scoperte originali furono invece molte e notevoli, ma soprattutto quello che va ascritto fra i meriti del pensiero scientifico musulmano è un diverso modo di intendere la scienza. Se accettiamo la divisione della filosofia scientifica fatta da Alexandre Koyrè, che definisce la visione impostasi a partire dal XVII secolo come “l’universo della precisione”, e quella precedente come “il mondo del pressappoco”, siamo costretti a notare, con Alessandro Bausani, come il pensiero islamico sia proprio l’anticipatore di quella precisione. Soprattutto in campi come l’astronomia o la medicina, gli esempi di questa tendenza possono essere moltiplicati a piacere, evidenziando uno scarto profondo fra le accurate osservazioni degli scienziati musulmani ed il “pressappochismo” caratteristico di tanta parte del pensiero antico, spesso tendente ad arrotondare cifre o ad aggiustare i fenomeni nell’intento di renderli conformi ad un astratto e preconcetto “sistema”.

Alessandro Bausani ha per primo intuito come sia stata proprio la visione religiosa dell’Islam ad influenzare questa tendenza. L’idea che nulla, in natura, sia ascrivibile a leggi astratte ed immutabili e che ogni fenomeno avvenga per puntuale ed istantaneo intervento divino è fortissima nel Corano e nell’insegnamento del Profeta Maometto. Prestar fede all’ineluttabilità di un movimento astrale, ad esempio, significherebbe agli occhi di un Musulmano attribuire alle cause seconde un’indipendenza e quasi una volontà che esse autonomamente non hanno né possono avere. Come ribadì uno dei massimi teologi ortodossi dell’Islam, al-Bâqillânî (X sec.), “I cieli e gli astri sono corpi creati come gli altri, senza particolari sacertà, e sono sottoposti alle stesse leggi che qualsiasi altro corpo dell’universo”. Il fatto è che l’unica legge certa è quella di Dio, un Dio, però, che è essenzialmente imprevedibile e il cui agire non può in alcun caso essere codificato o normalizzato dalla mente umana. Quello che ci appare come una legge fissa non è in realtà che un’”abitudine” (sunna) divina, che tende a far seguire certi effetti a determinate cause; ma se Dio volesse, potrebbe in qualsiasi momento cambiare il corso delle cose e derogare alla sua abitudine. Il Corano ci dice ad esempio che il sole va a riposare al tramonto in una fonte limacciosa, e la tradizione unanime degli interpreti aggiunge che di lì, ogni notte, si reca presso il trono divino a chiedere il permesso di sorgere il giorno successivo. Il permesso viene sempre accordato, ma l’evento non è in sé ineluttabile, ed in effetti, alla fine dei tempi, è detto che Dio altererà questa abitudine facendo sorgere il sole ad Occidente. È significativo, a questo proposito, che il termine tecnico per definire il “miracolo” sia in arabo kharq al-’âdât, che significa letteralmente “rottura delle consuetudini”: il miracolo viene così concepito non già come un evento straordinario dovuto ad una sorta di potere magico di chi lo provoca, ma piuttosto come la concessione divina di una “tregua” nelle consuete relazioni fra cause ed effetti.

Le riflessioni islamiche sulla natura del tempo costituiscono un’ulteriore conferma di questi dati. In netta contrapposizione con le credenze degli Arabi preislamici, che vedevano nel tempo un fato implacabile e sempre uguale a se stesso, Maometto affermò che “Dio è il Tempo”, per ribadire che esso non scorre linearmente e ciecamente, ma è di continuo alimentato dall’azione divina, istante per istante. L’alternarsi del giorno e della notte, dei mesi, degli anni, è dovuto ad una misurazione compiuta da Dio, che pone ordine in un flusso altrimenti indifferenziato con un intervento personale e continuamente reiterato. Ecco perché, tornando al tema della “precisione” cui si è prima accennato, la legge islamica non ammette il semplice calcolo per definire certe scadenze rituali, ma pretende ogni volta un’osservazione diretta dei fenomeni. L’inizio di un mese lunare (ritualmente importante a definirsi nel caso del digiuno o del pellegrinaggio) non può essere stabilito in anticipo sulla base di previsioni astronomiche, ma va certificato ogni volta nell’istante stesso in cui la luna nuova viene avvistata nel cielo. Il tempo lineare, ricordano spesso i testi islamici, è una mera illusione, in tutto e per tutto assimilabile a quella provocata da un tizzone con la punta arroventata che, roteato vorticosamente nel buio, ci dà la sensazione di un cerchio. Ma le posizioni della punta del tizzone, per quanto contigue le si voglia supporre, non saranno mai continue. La sola e vera realtà del tempo è così l’istante atemporale, unica irruzione dell’eternità nel mondo del divenire.

Tornando alle linee generali, questo atteggiamento della mentalità islamica di fronte ai fatti scientifici ha permesso ad alcuni studiosi di definire una simile visione come “protomoderna”. Ed in effetti forte è la tentazione di inserire alcuni aspetti del pensiero islamico nell’alveo di quell’antico Tao che Fritjof Capra ritiene in straordinaria sintonia con la filosofia scientifica contemporanea. Queste operazioni, tuttavia, non vanno fatte senza cautela. Non è difficile estrapolare alcuni elementi modernamente “scientifici” dall’opera di qualche ardito pensatore medievale, ed è anche possibile affermare che tali teorie avrebbero potuto contribuire al superamento di certi limiti dell’aristotelismo classico; ben diverso sarebbe però affermare che le intuizioni della metafisica antica siano organicamente in osmosi con la fisica contemporanea. Non può infatti sfuggire che il differente contesto, al di là di certe pur reali sintonie, presuppone intenzioni profondamente diverse, che non ci permettono di considerare gli antichi maestri del Tao, del Vedânta o dell’Islam come pionieri di una moderna visione dell’universo.

Il problema di fondo, a nostro parere, risiede nel differente ruolo che culture così distanti nel tempo, nello spazio e nella forma mentis hanno attribuito alla ragione umana. La dialettica fede/ragione non ha avuto sempre e dovunque gli stessi esiti, ed è in questo campo che forse possiamo trovare una giustificazione alle diverse strade intraprese dal pensiero scientifico in Occidente e nell’Islam. Al primo impatto, viene da pensare che la mancanza di uno sviluppo scientifico sia da attribuirsi al peso che l’auctoritas religiosa ha esercitato su una determinata cultura. In questa prospettiva, l’Occidente avrebbe ottenuto i suoi risultati in quanto riuscì a liberarsi dal pesante vincolo della religione, mentre l’Islam non avrebbe avuto la forza sufficiente per farlo, condannandosi ad una stagnazione culturale durata sino all’epoca coloniale. Questa ricostruzione è superficiale sotto più di un aspetto.

Innanzitutto, l’Islam ortodosso ha vissuto in maniera ben diversa dal Cristianesimo il possibile conflitto fra rivelazione e ragione. Il dibattito vi fu, e fu anche particolarmente intenso, ma si può dire che già con la definitiva costituzione delle scuole teologico-giuridiche (fra il IX ed il X secolo), esso si risolse per la maggioranza in un tentativo di concordia fra i dati della scrittura e quelli del ragionamento. Le componenti più rigoriste tenteranno anche in seguito di limitare il più possibile l’intervento di argomentazioni logiche nell’interpretazione religiosa, ma resta il fatto che la grande eredità del pensiero antico fu travasata nella cultura islamica, anche in quella religiosa in senso stretto, senza particolari traumi. Così, nell’Islam la lettera del testo sacro non poté mai entrare in conflitto insanabile con l’osservazione razionale delle cose, proprio perché la via prescelta nell’interpretazione del dato rivelato fu quella di evitare ogni stretto letteralismo come pure qualsiasi spinto allegorismo. Questo atteggiamento conciliante valse per tutti i rami della speculazione musulmana, da quelli più squisitamente teologici a quelli di impronta nettamente filosofica e scientifica.

Una simile situazione sembrerebbe dunque favorevole allo sviluppo di una scienza nel senso moderno e occidentale della parola. Ma allora perché vi è stata al riguardo quella frattura fra l’Islam e l’Europa cui abbiamo prima accennato? Paradossalmente, si potrebbe rispondere in poche parole a questo complesso interrogativo affermando che l’Islam non ha vissuto una rivoluzione scientifica simile a quella occidentale proprio per la scarsa conflittualità fra rivelazione e ragione. Per precisare meglio, si può dire in estrema sintesi che lo sforzo di armonizzare i due versanti non ha consentito di separare più nettamente gli ambiti rispettivi, che nella cultura cristiana si sono invece trovati in posizione più chiaramente antagonista ed hanno quindi meglio precisato la propria identità. Gli storici della scienza ben sanno quanto in Europa sia stata fondamentale per la nascita del pensiero scientifico moderno una certa attitudine “ermetica”, nel senso che i primi passi dell’umanesimo scientifico sono stati condotti in ambienti fortemente tinti di sapere esoterico. Dalla trasformazione dell’alchimia in chimica sino al Rosicrucianesimo di un Newton e alla nascita della Royal Society, la componente per così dire “settaria” e comunque antagonista alla religione ufficiale (soprattutto di parte cattolica) è risultata uno stimolo non secondario dell’elaborazione scientifica. Nell’Islam nulla del genere è potuto avvenire. Laddove era già abitudine armonizzare il pensiero filosofico-scientifico con il sapere spirituale, non si è avvertita l’esigenza di separare dialetticamente le due cose, col risultato di non attribuire alla speculazione sulle scienze uno statuto autonomo rispetto alla comune nozione di conoscenza.

Per chiarire meglio quest’ultimo punto è necessaria una breve analisi dell’idea stessa di scienza nella civiltà islamica. L’importanza di questa nozione è al centro stesso dell’Islam, tanto che Franz Rosenthal ha potuto intitolare un suo libro su questo argomento Knowledge Triumphant; ma cosa si intende esattamente nel mondo islamico con il termine “scienza”? La parola araba che più esattamente traduce l’idea è ‘ilm, e già Corano e nei detti del Profeta questo termine assume i caratteri di una nozione capitale. “Cercate la scienza foss’anche in Cina”, recita una citatissima frase di Maometto, il quale aggiunse poi fra i massimi doveri d’ogni uomo l’acquisizione di una “scienza utile” (‘ilm nâfi’). Ebbene, è proprio attorno a quest’ultimo aggettivo che si è concentrata l’attenzione dei pensatori musulmani. Cos’è che rende una scienza realmente “utile”? Le risposte, com’è ovvio, sono state molteplici a seconda degli orientamenti e delle epoche. Per alcuni, l’utilità doveva essere interpretata esclusivamente come ciò che contribuisce alla salute spirituale del singolo o della comunità; per altri, i vantaggi materiali che una scienza può apportare potevano chiaramente rientrare in questa nozione di utilità. Ma su tutti pesava un versetto coranico (XVII, 85) che recita: “E non vi è stato dato, in fatto di scienza, se non un poco”. Questo messaggio divino intendeva alludere alla natura rivelata di ogni sapere umano, anche materiale, in conformità con la visione generalmente pessimista dell’Islam sulla natura e le capacità dell’uomo. Per questo man mano si andò affermando l’idea che una scienza, per essere utile, deve in qualche modo essere trasmessa da Dio e non può essere frutto esclusivo dello sforzo umano. Il concetto di ‘ilm si è così fuso in modo inestricabile con due altre nozioni, quelle di ma’rifa (“conoscenza”, nel senso di gnosi superiore) e di hikma (“sapienza”). È evidente che questa assimilazione non ha favorito la nascita di una scienza indipendente, che si contrapponesse con una propria ed autonoma fisionomia alla sapienza della tradizione, già in sé considerata onnicomprensiva ed autosufficiente.

Il declino della ricerca scientifica in terra d’Islam non è così imputabile, come vuole un’affrettata e diffusa analisi, all’intolleranza e al fanatismo della cultura religiosa, ma forse proprio al contrario, e cioè al fatto che, in passato, l’autorità tradizionale fu in genere tutt’altro che intollerante e fanatica. Un Musulmano odierno, anche zelante, difficilmente capirebbe i motivi di quel travaglio fra etica e tecnologia che sembra tanto affliggere gli Occidentali d’oggi, proprio perché nella sua mentalità la scienza non si è mai così violentemente contrapposta al pensare religioso, ma ne può tranquillamente essere considerata un’estensione, una normale applicazione. Questo spiega ad esempio perché le posizioni ufficiali islamiche sui dibattuti temi delle biotecnologie, della fecondazione artificiale, dell’aborto, appaiano sorprendentemente più duttili ed aperte di quanto non lo siano altre visioni religiose; né ci potremmo mai aspettare l’intervento di un’alta autorità dell’Islam in un consesso di scienziati per dettare i princìpi etici cui deve attenersi la ricerca scientifica.

Credo che in questo particolare momento tutto ciò potrebbe dare ai paesi islamici un nuovo vantaggio, non certo uguale ma per certi versi analogo a quello di cui godettero nel Medioevo rispetto alla civiltà europea. Un approccio alle grandi sfide tecnologiche di oggi più disincantato e meno drammatizzante garantisce un impatto meno traumatico sulla società in un’epoca di forti trasformazioni e una più equilibrata accettazione collettiva dei contraccolpi che tutto ciò porta inevitabilmente con sé. In altre parole, le stesse ragioni che hanno alla lunga provocato la decadenza scientifica del mondo musulmano potrebbero entro un certo tempo trasformarsi in una nuova, affascinante opportunità.

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