Degenerazione maculare, occhio alla prevenzione

L’occhio è la nostra finestra sul mondo. Ma è anche un organo, che come cuore, fegato o polmoni, si può ammalare. Di patologie anche gravi, come la Degenerazione Maculare Legata all’Età (DMLE), che complessivamente colpisce il 35 per cento degli over 70 e può portare alla perdita della vista. Nella sua forma più pericolosa, quella “umida”, la perdita progressiva della vista è dovuta alla formazione di nuovi vasi sanguigni all’interno della retina, in corrispondenza della macula. Questi formano delle membrane neovascolari che, con il passare del tempo, tendono a formare un’estesa cicatrice al centro della retina. Le conseguenze sono gravi: perdita del visus al centro del campo visivo e distorsione delle immagini, due fenomeni che rappresentano il segno premonitore più importante. Eppure, nonostante la sua ampia diffusione, questa malattia è sottovalutata dagli stessi pazienti, che arrivano alla diagnosi in genere con un grande ritardo, come mostra una ricerca GfK Eurisko, secondo cui ben il 16 per cento degli italiani over 50 (poco meno di quattro milioni di persone) non va mai dall’oculista.

L’unico intervento efficace è oggi rappresentato dalle iniezioni intravitreali: i farmaci disponibili appartengono alla categoria degli anti-angiogenetici, che dunque bloccano la proliferazione dei vasi sanguigni. Oltre allo stress del doversi sottoporre – in genere con cadenza mensile – alle iniezioni intravitreali, dalla terapia iniettiva, anche se raramente, possono derivare alcuni eventi avversi come l’endoftalmite, il distacco della retina, la cataratta traumatica e l’aumento della pressione intraoculare.

Per ridurre lo stress della terapia e dei controlli mantenendo inalterata l’efficacia dell’azione, è da qualche mese disponibile un’altra arma nell’arsenale degli oculisti, oggi rimborsabile dal Servizio Sanitario Nazionale. Si tratta di aflibercept, una proteina di fusione completamente umana con un meccanismo d’azione nuovo rispetto alle altre cure basate sugli anticorpi monoclonali. Il suo meccanismo d’azione si caratterizza per il fatto di agire come un recettore naturale, intrappolando come le chele di un’aragosta i fattori responsabili della crescita anomala dei vasi sanguigni all’interno della retina. E consente gli stessi risultati clinici delle altre terapie con un ridotto numero di iniezioni intravitreali: sette invece di dodici. “È importante rilevare – dice Monica Varano, responsabile del Servizio Retina Medica IRCCS Fondazione G.B. Bietti di Roma – che dopo le prime tre iniezioni, praticate a distanza di un mese l’una dall’altra come nel caso delle terapie a base di anticorpi monoclonali, le successive iniezioni possono essere fatte ogni due mesi”.

Credits immagine: Rob Unreall/Flickr

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